Il ritorno sulla Terra dei Grateful Dead
Il loro quarto album in studio apre nuove vie
Gli anni ’60 della psichedelia californiana si erano chiusi, e ai Grateful Dead avevano lasciato anche uno strascico di debiti dovuti al fatto che le costose sedute di registrazioni di Aoxomoxoa non si erano tradotte in vendite. Era il momento di una svolta, che a Jerry Garcia & Friends fu suggerita da due fattori: il grande successo dei loro amici CSN&Y, ed il fatto che prima di dedicarsi alla psichedelia elettrica, un primo nucleo della band suonava musica tradizionale americana: fra country, bluegrass e jug band music. Certo che si presero un bel rischio ma le vendite risposero bene: tutto relativo, visto che arrivò al massimo al 27.mo posto in classifica, ma i dischi precedenti, pur avendo segnato in qualche modo la storia della musica, non erano mai entrati fra i primi 50! Ma in qualche modo si può certamente dire che i Grateful Dead che sarebbero diventati un fenomeno quasi senza pari nel seguito dei loro tour dei decenni a venire, nascevano con questo album. Anche se in verità, come vedremo prima della fine dell’anno, il loro percorso quasi acustico – nemmeno questo disco lo è del tutto – sarà tutto sommato abbastanza breve. Un album comunque splendido, da conoscere assolutamente: pensate che i lettori di Rolling Stone lo elessero miglior album del 1970, seguito da Déjà vu e da Moondance.
Curiosità: lo strano titolo, che a una prima lettura potrebbe erroneamente suonare come “L’operaio è morto”, viene in realtà dal suggerimento di Garcia di svoltare nel senso di rimettere i piedi per terra dopo la fase spaziale e psichedelica. Disse proprio al paroliere Robert Hunter che voleva una “versione operaia” dei Dead: la traduzione corretta è questa.
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