Ex deportata rompe il silenzio: “Fui una vittima di Mengele”
Sylva Sabbadini abita a Marchirolo e dopo 64 anni racconta per la prima volta la sua storia. Nel 1944 è stata deportata ad Auschwitz con la madre
«Mi raccomando non sbagli il mio nome, vuole la ipsilon. È una cosa che mi fa arrabbiare molto». Sylva Sabbadini ha 76 anni, vive a Marchirolo, è ebrea e nel 1944 è stata deportata nel campo di sterminio di Auschwitz. Una storia che non ha mai voluto raccontare. Fino a quando ha incontrato, durante una conferenza, Angelo Chiesa, segretario provinciale dell’Anpi, e gli ha mostrato il braccio sinistro con il numero di matricola tatuato dai nazisti. 64 anni dopo, Sylva Sabbadini, ha deciso di raccontare quell’esperienza ai ragazzi dell’Isis di Varese. «Abitavo a Padova con la mia famiglia e io sono una di quelle ragazze che venne espulsa da scuola quando nel 1938 entrarono in vigore le leggi razziali contro gli ebrei. Mio padre, che era un funzionario del ministero dell’Agricoltura, perse il lavoro. Un giorno il questore di Padova arrivò a casa nostra e disse a mio padre che era venuto il momento di tagliare la corda e così scappammo in campagna ospiti di una famiglia di contadini».
I Sabbadini tirano avanti gestendo una gelateria che intestano al marito della loro donna di servizio, perché non possono avere proprietà. Come è accaduto a molti altri ebrei, anche loro vengono traditi e venduti ai nazisti dagli italiani. Il federale del paese si presenta alla fattoria, con lui ci sono le Ss tedesche che arrestano tutta la famiglia. Sylva, i suoi genitori e la nonna vengono portati prima in una villa a Vo’ Euganeo e subito dopo a Trieste. «Ci hanno rinchiusi nella Risiera di San Sabba, un vero e proprio lager. Con noi c’era anche uno zio, mentre mia nonna l’avevano risparmiata perché aveva più di 60 anni. Ricordo i rumori e le grida e poi il viaggio verso Auschwitz in quei carri bestiame. Ancora oggi non riesco a fermare lo sguardo su un treno merci».
Al suo arrivo nel campo di sterminio, Sylva passa indenne la selezione e continua a rimanere con la madre. Il destino le riserverà una seconda opportunità nel momento in cui verrà selezionata dal dottor Mengele per i suoi esperimenti medici. «Quando arrivai ad Auschwitz avevo tredici anni e mezzo e mi salvai dalla camera a gas perché ero già formata, sembravo una donna adulta, quindi potevo lavorare. Una ragazza della mia età, alta e secca, che viaggiava con me, venne spedita subito a morire. Rimasi sempre con mia madre, lei parlava lo yiddish, la lingua della sua famiglia, e quindi capiva bene anche il tedesco, aspetto molto importante per sopravvivere. Un pomeriggio arrivò nella nostra baracca il dottor Mengele e mi scelse insieme ad altre due ragazze per delle sperimentazioni mediche. Ci trasferirono nell’infermeria. Eravamo sedute e aspettavamo di essere chiamate, intuendo quello che ci aspettava. Uscì l’infermiera e prese una di noi tre, una ragazza dell’est. Noi ritornammo alla baracca e non la rivedemmo più».
Per Sylva Sabbadini il momento della liberazione, nel gennaio del 1945, ha un suono preciso e un’immagine nitida. «Sentivamo il rumore dei cannoni molto vicino. I tedeschi a quel punto in preda al panico ci chiesero se volevamo fuggire con loro in quella conosciuta poi come la marcia della morte, tutti quelli che accettarono vennero uccisi durante il tragitto. Mia madre mi guardò fissa e mi chiese che cosa dovevamo fare e io le risposi che morire per morire preferivo rimanere lì con lei in infermeria. Eravamo abbandonati a noi stessi, senza forze, quando una mattina sono comparsi dei soldati, parlavano russo e giravano nelle camerate guardandoci sbalorditi, sembravano dei marziani. Se avessero ritardato di quindici giorni saremmo morti tutti».
Sylva e sua madre rimasero ancora per tre mesi ad Auschwitz a servire nella mensa ufficiali. «L’odore dei cadaveri che bruciavano era insopportabile, volevamo andarcene a tutti i costi. Mia madre conobbe un ufficiale rumeno che ci portò a Bucarest. Una volta lì contattammo il console italiano. Ci venne incontro un uomo elegante che ci portò in un appartamento molto bello dove c’erano altri italiani. Mia madre vide un pianoforte e lo fissò a lungo, senza parlare. Non mi meravigliai, dopo tutto lei era una concertista e come quasi tutti i componenti della sua famiglia suonava il pianoforte e il violino. Erano emigrati agli inizi del ‘900 da Odessa, quando era ancora Russia, a Trieste. A un certo punto si avvicinò a quel grande pianoforte a coda, si aggiustò il seggiolino, iniziò a premere sui tasti. Fu così che ricominciammo a vivere».
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