Sollima: “La musica non salverà il mondo”

Il Premio Pulitzer Justin Davidson lo ha definito il «Jimi Hendrix del violoncello». Giovanni Sollima non finisce mai di stupire, nemmeno in questa intervista

Da alcuni giorni ha chiuso «un piccolo tour», come lo definisce lui stesso, dedicato al suo ultimo album “We were trees” (Sony Bmg) realizzato con la violoncellista Monika Leskovar e la formazione berlinese Solistenensemble Kaleidoskop. A Mannheim per lavoro – perché Sollima è instancabile, inarrestabile e irraggiungibile – ci racconta dei suoi progetti futuri con quella “stregoneria” nell’anima che lo ha portato ad essere uno fra gli artisti (ed i compositori) più richiesti di questi ultimi vent’anni. Perfezionista con la capacità di creare imbarazzo in chi l’ascolta (nelle istituzioni come nel pubblico), spavaldo e appassionato (dna tipicamente siciliano) eppure affascinante nella sua umiltà, Sollima scrive con l’ispirazione di un inventore. E al pari di Leonardo Da Vinci progetta, crea, stupisce. Così, ecco «i due nuovi programmi per violoncello solo ai quali sto lavorando e le Suite di Johann Sebastian Bach che inciderò prossimamente ma con lentezza, perché Bach cambia di giorno in giorno e fotografarlo con una registrazione è impossibile. Vorrei collaudarlo di più ed osservarlo da tutte le possibili angolazioni». Per Sollima la certezza è una somma di esperienze: se qualcosa si deve lasciare ai posteri, che sia perfetta e ben congegnata. Nulla al caso, anche se l’interprete è un essere umano, e l’uomo – per natura e per definizione – non può raggiungere l’Assoluto. Questo è Sollima e questo sarà il «concerto per violoncello che mi è stato commissionato dalla Budapest Festival Orchestra e che presenterò in Austria e Germania».
Un concerto dedito alla “contaminazione”?
«Più o meno, sì. Nei miei programmi in solo ho raccolto spesso brani di Piatti, Boccherini e altri autori che hanno avuto a che fare con la musica popolare: dalla tradizione bizantina e dei Paesi Balcani alla fiddle-music irlandese. Quando scrivo vivo un rapporto del tutto particolare con il suono: un crocevia di idee, un intreccio di percorsi, un grande contenitore dove tutto è movimento. In questo concerto senza titolo (ma ne avrà uno) anche l’organico orchestrale sarà soggetto a cambiamenti con l’introduzione di strumenti insoliti, dalle percussioni autocostruite all’organo Hammond. Insomma, un lavoro da artigiano».
Appunto, l’artigiano che si sporca le mani ma che non sempre gli riesce ciò che ha in testa. A lei questa piace questa definizione?
«Certo, e di non riuscire accade anche a me. C’è una fase in cui raccolgo il materiale, lo lavoro e lo assemblo. Il passo successivo, solitamente accade durante i concerti, è dedicato all’ascolto e al fatto di dover testare personalmente il brano. In realtà non mi sento un compositore ma un violoncellista: scrivo perché suono. La mia è una scrittura fisica con una componente cerebrale che è azione e ricerca. Naturalmente il margine d’errore c’è: anche una struttura ferrea è soggetta a cedimenti».
Lei è stato definito dal Premio Pulitzer Justin Davidson il “Jimi Hendrix of the Cello”. Bello ma impegnativo, non crede?
«Troppo impegnativo, anche se Hendrix è spesso presente nei miei programmi. A dire il vero, nel 2008 ho quasi sempre alternato brani di Johann Sebastian Bach a canzoni del chitarrista di Seattle. E lo faccio soprattutto nei festival di musica barocca, perché la libertà nella prassi esecutiva caratterizza anche Hendrix. La resa acustica, la forma, la componente improvvisativa, la ricerca di nuove soluzione tecniche, il potenziamento degli strumenti in voga e la creazione di macchine musicali diverse legano gli autori di quell’epoca a Jimi, inventore di effetti elettronici che si usano ancora oggi nel rock come nella musica contemporanea. Trovo del tutto naturale l’abbinamento».
“We were trees” è uno fra i suoi migliori lavori, soprattutto perché sembra sia intriso di un ragionamento ambientalista sul suono. Non pensa che la musica sia già un’espressione ecologica delle nostre vite?
«Ciò che dice è molto bello e penso sia così. Sul piano interiore la musica è una forma astratta di arte che riesce a raggiungere l’ascoltatore nelle sue profondità. Una forza evocativa che mette in moto il corpo e così forte da poter risultare visiva. Una forma di natura che – qualora volessimo farlo – non riusciremo mai a snaturare: troppo cristallina, limpida e pura.
Un cielo terso dove nulla si può nascondere ed una dimensione che difficilmente si può percepire fisicamente (al di fuori delle orecchie che l’ascoltano) ma che si dimostra più efficace della parola. E questo perché la musica è dotata di tutti gli elementi dell’esistenza: spazio e tempo, dimensione orizzontale e verticale, architettura e contenuto».
Lei parla di musica che si arrampica, fiorisce, sale e si intreccia. E’ un fatto di radici. A questo punto , la musica può essere considerata una casa su di un albero?
«Sì, lo é. La si deve considerare una specie di osservatorio dal quale guardare, capire e rappresentare il mondo. Ciò che è il nostro mondo interiore. Ed ecco le mie radici che non riesco mai a contenere o allontanare: presenti più di quanto lo voglia, prepotenti, espressione della mia sicilianità. D’altronde la Sicilia è un’isola dalla storia complessa, interessata da molteplici invasioni – Federico II, gli spagnoli…mancano nella sua storia solo gli atzechi – e quindi capace di trasformarsi in barca, vicina o lontana dalla terra ferma. Così ferita e massacrata dal passato, caduta nel buio eppure più volte risorta in una luminosità immensa. E’ questo che racconto: le mie radici sono quelle di un intero popolo».
In “We were trees” lei presenta una sorta di dedica a Luigi Boccherini (per ciò che ha scritto per il violoncello e per la sua propensione al viaggio) e ad Antonio Vivaldi per la semplicità con la quale descrive la natura in musica. Dire ciò che si vuole dire senza compromessi nei confronti di se stessi e del pubblico. Ma la musica potrà mai essere per tutti?
«Questa, ormai, è una querelle inutile e alla quale si dovrebbe mettere fine. Spesso penso che sia dettata dal sistema, dal marketing e dalle istituzioni. Per quanto mi riguarda, ma non sono il solo, vivo in una intercapedine – un mondo parallelo – dove più generi convivono fra loro. Lo “specialista”, oggi, non esiste più o, meglio, non dovrebbe più esistere. Incasellare e dividere è una prerogativa di alcune stagioni concertistiche e delle etichette discografiche, alle quali fa gioco creare negli ascoltatori una sorta di timore nei confronti di alcune musiche. Ma il pubblico è più intelligente e proiettato verso il futuro di quanto molti vogliano farci credere: internet lo dimostra. Considero la musica come una mappa dei mondi musicali; una mappa che può essere letta da tutti. E’ per questo che quando studio un programma lo penso secondo i criteri di un testo drammaturgico o di un racconto. Una vera e propria curva espressiva».
 Nel suo ultimo cd ha inserito “L. B. Files, Yet Can I Hear” nato da una improvvisazione con Patti Smith. Ma è vero che adora anche i Pink Floyd?
«Non solo quelli: anche i Deep Purple e tutti quei gruppi rock che hanno dimostrato coraggio e hanno guidato il pubblico verso territori inesplorati, pericolosi ma esaltanti. D’altronde, basterebbe dare un’occhiata al mio IPod per accorgersi dei miei gusti musicali (sic!)».
Con la scusa di avvicinare i giovani, oggi si assiste spesso ad un impoverimento dell’atto creativo. Cosa ci dice di Giovanni Allevi: le piace la sua idea di voler creare una musica classica contemporanea?
«Sì, è un obiettivo sanissimo, anche se Allevi non è il solo a coltivare un sogno come questo. La classicità, d’altronde, non deve essere relegata nel passato e chi ci crede cerca di cancellare i pregiudizi a modo suo: con le proprie forze, le proprie idee, il proprio talento. Ognuno con un’originalità che non è solo di questi tempi».
 Potremmo affermare che nella sua carriera ha fatto di tutto, o quasi. Addirittura ha suonato ad una altitudine di 3200 metri in Val Senales (Trentino – Alto Adige) con un violoncello di ghiaccio costruito dal liutaio-alchimista Tim Linhart. Le manca solo un concerto subacqueo…
«In realtà, con il violoncello mi sono già tuffato…Ora, però, mi dedico alle percussioni ad acqua, elemento prodigioso e con il quale si possono ottenere ottimi risultati».
 La musica potrà salvare il mondo?
«È un fluido onirico, quindi potrà accompagnare il mondo nei suoi viaggi e nel suo destino. Ma non lo salverà».
 

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Pubblicato il 23 Aprile 2009
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