Referendum, un’arma a doppio taglio?

Riflessioni del senatore del PD Paolo Rossi. «Non mi trovo a condividere quelle ragioni che altri adducono per votare in modo affermativo»

Riflessioni del senatore del PD Paolo Rossi sul refendum elettorale
 

Da qualche tempo a questa parte l’ambizione manifestata da alcuni politici può esser riassunta nel desiderio di poter riconoscere e riconoscersi in Paese «normale». Tale normalità, cui poter aspirare, cozza evidentemente con l’evidente esasperazione dei toni, con i conflitti di interesse palesi o arcani, boutade elettorali e operazioni d’immagine che troppo spesso hanno confinato il dibattito politico al rango di un problema di semplice comunicazione (ad esempio l’insicurezza quale indicatore di una stabilità, vera o presunta), e non di contenuti, come se la chirurgia plastica e la cosmesi fossero sufficienti a guarire dal raffreddore.
È questo il caso anche del Referendum ormai alle porte: un esempio ulteriore, se ve ne fosse bisogno, di come anche le cause più nobili possano rivelarsi un’arma a doppio taglio, o nascondere un fondo di ambiguità.
Mi spiego: ferma restando l’esigenza di riscrivere una legge elettorale più giusta ed equilibrata, mi pare che si stia scambiando la causa con l’effetto. In primo luogo nutro una perplessità di fondo sul fatto che il quesito referendario non sia stato portato al giudizio dei cittadini dal basso, così come dovrebbe essere, essendo avvenuto il contrario. Gli strumenti della politica sono l’emanazione delle leggi e il dibattito parlamentare che vi sottostà, e che precede e che segue: se l’iniziativa del Referendum nasce nell’alveo della politica, questo significa inevitabilmente svuotare il dibattito parlamentare del suo fine ultimo e delle sue priorità.
In secondo luogo va riconosciuto a Veltroni l’aver provato a tracciare un disegno ambizioso, che aveva come suo scopo il raggiungimento di un bipolarismo funzionale e al passo coi tempi. Quel che è accaduto, prima e dopo le ultime elezioni, guardando a entrambi gli schieramenti, sembra suggerire che, allo stato dei fatti, non tutte le tensioni sono in grado di essere assorbite e che il suddetto vagheggiato sistema bipolare è rimasto monco (per non dire acefalo). Questo non inficia la validità del progetto, ma deve farci riflettere sul fatto che simili mutamenti interni, tipologici del sistema, devono essere in completo sintonia con la trasformazione del Paese.
Ora il Referendum in quanto tale, ha i connotati di un domino a rovescio: nel tentativo, cioè, di promuovere un cambiamento in astratto, che lascerebbe sul tavolo tutte le questioni irrisolte, e per di più aggravandole, e di produrre una legge – come afferma Bodrato – peggiore di quella che Segni e Guzzetta propongono di abrogare; regalando così a Berlusconi, con affermazione cara a Sartori, quel «sultanato» (frutto di una coerente capacità di coniugare opinione pubblicata intelligentemente manipolata ed esercizio personale delle prerogative del potere), scevro perfino dei possibili elementi di mediazione e dissenso provenienti, non dico dall’Opposizione, ma dalla Lega e Alleanza nazionale. Per questo non mi trovo a condividere quelle ragioni che altri viceversa adducono per votare in modo affermativo al Referendum.
Lo scenario politico è mutato, e se ne deve tener conto. Le risposte che avevamo fino a ieri sono obsolete per le domande che si levano a livello nazionale e internazionale, aggravate dagli effetti di una crisi strutturale. Lo stesso Referendum era sorto in un contesto radicalmente diverso da quello odierno, in seno alle storture e alla non-governabilità che il Porcellum aveva prodotto.
Oggi credo che non abbia un’importanza decisiva essere considerati di centrodestra o di centrosinistra: quello che primariamente s’impone sono i contenuti e i modelli riformisti in un Paese difficile da riformare, che perde terreno e competitività, ancorato com’è alle sue vecchie logiche, in Europa e nel Mondo.
Entro quest’ambito è giusto guardare all’elettorato moderato e cattolico, ma un conto è muovere dall’interno della riflessione riformista e delle prerogative del Partito democratico, altro conto è delegare – come vorrebbe Francesco Rutelli – e appaltare un simile compito all’UDC, stringendo un’alleanza che è un mettersi alla finestra e tracciarsi una via di fuga.
Stefano Malatesta, in un bel libro che si intitola Il grande Mare di sabbia, racconta di una stazione posta a trecento chilometri da Algeri, in pieno deserto, edificata e rifinita in attesa che la costruzione della linea ferrata si spingesse fino alla periferia del Paese. Per una serie di ragioni i lavori furono interrotti, e la stazione rimase come un avamposto, perfettamente inutilizzabile, con la sua biglietteria, la sala d’aspetto di prima e di seconda classe, il bar.
È bene e necessario porsi degli obiettivi e lavorare per raggiungerli: ma è bene anche conoscere la geografia del Paese e sapere dove vogliamo andare. In caso contrario il treno del riformismo e di una nuova legge elettorale saranno solo la chimera di un punto disegnato sulla carta, non uno snodo della realtà ma una casa visitata dai fantasmi.

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Pubblicato il 07 Maggio 2009
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