Don Backy, “l’anarchico musicale” che si scontrò con il furbo Celentano

Ha scritto pagine indimenticabili della musica leggera italiana. Un'avventura artistica raccontata in “Storia di altre storie-Memorie di un juke-box” (Ciliegia Bianca Editore)

Don BackyÈ uscito in questi giorni – e lo si può trovare nelle principali librerie varesine – il volume “Storia di altre storie-Memorie di un juke-box” (Ciliegia Bianca Editore, 286 pagine, 30 euro). Si riferisce al periodo degli anni ’70-80 del Novecento. L’ha scritto Don Backy, al secolo Aldo Caponi, di Santa Croce sull’Arno, in provincia di Pisa. Il libro, formato 25×30, ricco di illustrazioni in bianco e nero e a colori, e pure dotato di una fittissima documentazione, rappresenta bene, grazie a un’originale narrazione per lo più in terza persona, uno dei momenti topici della vita canzonettistica italiana; e non solo. Don Backy (l’autore di l’Amore, di Poesia, di l’Immensità, tanto per citare tre dei suoi pezzi più famosi; attore di successo anche in film importanti come "Banditi a Milano" di Lizzani o "I sette fratelli Cervi" di Puccini) vi ha lavorato a lungo, ricomprendendolo in una probabile trilogia; e sarebbe già impegnato nel preparare la terza puntata.
Chi scrive appartiene per via generazionale a una schiera di fan “donbacchiana”, che per altro s’è potuta consolidare di recente in sede di posta telematica, dovuta anche alla simpatica disponibilità dell’artista. Molti anni fa, quando divampò una querelle irrisolta, almeno sul piano della solidarietà amicale tra Don Backy e Adriano Celentano, a causa di interessi maturati e non riscossi nei cimenti del Clan, capitò di parteggiare senza esitazioni per il Don, benché nella vicenda l’uno (Celentano) apparisse come l’Achille e l’altro (Don Backy) come l’Ettore. Intendiamoci, non che Celentano non sia un personaggio importante nella storia della canzone italiana. Ma se si dovesse dare di lui un giudizio conclusivo (l’opinione, è ovvio, è del tutto personale) si potrebbe dire: il più grande, il più furbo.
Le qualità di Don Backy, e ce ne si può rendere conto subito leggendo anche questo libro, sono tutt’altre e molto più genuine, naives: la sincerità, innanzitutto, talora l’ingenuità; una passione sconfinata per la propria arte e per il proprio lavoro che continua a fare (e bene, come Celentano, del resto) a settant’anni suonati, anche se con un seguito più ristretto rispetto all’ex capo del Clan.
Del “toscanaccio” Don Backy ha forse anche qualche ruvidezza di carattere, ma sono ben lontane da lui le furberie e le filonerie. Lo si definirebbe un “anarchico sentimentale”; quindi niente prediche, niente ammiccamenti parapolitici, niente elucubrazioni filosofiche. Piace al Don muoversi da solo in un campo esclusivamente letterario e musicale. Dai suoi lavori (e anche il libro ne è una prova) esce un’indicazione tradizionale di valori quali la famiglia, la lealtà, il senso del dovere, l’amore filiale e coniugale (la sua compagna, Liliana, l’ha sempre chiamata Lilith, come la moglie di Tex Willer… ), il tono un po’ fanciullesco e generoso, la poesia tout-court.
In una sua canzone non notissima (Regina) Don Backy ha scritto: «Vorrei amare una sola regina/quella ragazza che chiusa sta/nella canzone di Paoli che dice così/ quando sei qui con me questa stanza pareti non ha…». Solo una canzone? Forse di più: una storia, e un ricordo antico.

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Pubblicato il 26 Gennaio 2010
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