Liliana Segre racconta Auschwitz: “Scegliete la vita, sempre”
Sala strapiena in municipio per accogliere la testimone, deportata nel campo di sterminio nazista a soli tredici anni perchè ebrea dopo essere stata respinta dalla Svizzera
Una sala strapiena al municipio di Samarate martedì sera per ascoltare il racconto di Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. È il contributo, importante, dell’amministrazione comunale a quel periodo culminante della giornata del 27 gennaio, dedicato per legge dello Stato alla Memoria, quella con la m maiuscola. E i pochi, pochissimi testimoni rimasti del più orrendo crimine nella storia dell’umanità – i campi di sterminio partoriti dalla malvagità nazista, il genocidio di sei milioni di uomini, donne, bambini, anziani ebrei – raccontano, raccontano, raccontano. Per Segre una sala piena anche di ragazzi delle scuole: non si trovava posto a sedere, in un silenzio a tratti da poter sentire cadere uno spillo. Ad accogliere la testimone con commozione l’assessore Mazzucchelli e il sindaco Solanti.
Quando la deportarono non era che una ragazzina Liliana Segre, una come tante. Una ragazzina samaratese come lei, Gaia, rappresenterà Samarate sul Treno della Memoria che il 27 gennaio raggiungerà Auschwitz per le annuali commemorazioni. Nella differenza fra quei viaggi c’è tutto l’abisso che separa il Male assoluto e questo nostro tempo imperfetto ma armato della volontà di non dimenticare.
Un solo "piccolo problema" travagliava un’altrimenti serena vita familiare per Liliana: era ebrea, e come tale era stata espulsa dalle scuole del Regno fin dal 1938, a otto anni.
Le parole, le parole. Ritornano come elementi che scandiscono la tragedia degli innocenti. «Perchè? Perché? Perchè?» chiedeva la piccola Liliana al papà (era cresciuta orfana della mamma) quando non poteva più andare a scuola perchè così aveva deciso il duce per scimmiottare i nazisti. Tutto mentre l’indifferenza, il nemico peggiore, isolava le vittime della discriminazione. «Si voltava la faccia dall’altra parte» e gli ebrei italiani iniziavano soli la china discendente verso il tritacarne dello sterminio, che mai avrebbero potuto immaginare.
L’arresto di Liliana Segre e famiglia resta a imperitura vergogna della Svizzera di fronte all’umanità. Quando contrabbandieri strapagati gli ebbero fatto passare il confine verso Arzo, un ufficialetto di lingua tedesca li guardò con disprezzo: «Italiani… venite qui solo per sfuggire alla guerra». Liliana, tredicenne, pianse, supplicò, gli si avvinghiò alle ginocchia. Niente da fare. «Sghignazzando», come racconta, i militi li riportarono dritti nelle braccia dei finanzieri repubblichini in camicia nera, «servi zelanti» dei nazisti. Poi, il carcere. Varese, Como, San Vittore. La piccola Liliana piangeva, e non capiva. Perchè, perchè, perchè? Perchè io qui, che sono una bambina? Perchè le impronte, le foto segnaletiche, i secondini? Il carcere milanese fu il luogo degli ultimi momenti di felicità, perchè vi ritrovo il padre. «La Gestapo interrogava, si sapeva cosa faceva alla gente. Portavano via mio padre che ero sua figlia, me lo riportavano che ero diventata sua sorella, se non sua madre. Ero invecchiata a furia di aspettare, sola. Ci abbracciavamo senza una parola». Le uniche parole di civiltà, di affetto, furono per i deportandi quelle dei criminali comuni: «Vi vogliamo bene, non avete fatto niente voi» e lanciavano alla colonna persino della preziosissima frutta. Potevano essere ladri, ruffiani, assassini: ma erano ancora uomini. Non vi saebbe stata l’ombra di una parola gentile per l’anno e mezzo seguente.
Poi il viaggio allucinante in treno, nel vagone merci sovraffollato, verso ignota destinazione. Buio, urla, strepiti. Preghiere, gente che se la fa addosso, sete, fame. Poi il silenzio, il silenzio di tomba di chi sente di andare alla morte. Di 605 torneranno in 20.
Auschwitz: fotoelettriche, bastonate, cani che latrano, SS, ordini urlati in tedesco, uomini di qua, donne di là. Liliana, che sembrava più grande della sua età, sfugge al gas: avrà il dubbio privilegio di poter essere schiava del Reich nazista per un po’, prima di passare per il camino come tutti gli altri. Invece no: la sua fortuna è di essere scelta per lavorare in una fabbrica di munizioni, al coperto. Indebolita, ridotta a uno scheletro, rapata, una divisa leggera nell’inverno polacco, passate tutte le umiliazioni della "disinfezione" e del tatuaggio del numero insieme a innumerevoli altre, Liliana è animata da una feroce volontà di vivere. «Hanno il mio corpo, ma non avranno la mia mente» si dice dal primo momento. «Scelsi di non vedere il filo spinato, le compagne sottoposte a crudeli punizioni, gli appelli, gli impiccati, le montagne di cadaveri, la fiamma della ciminiera. Scelsi la vita. Scegliete la vita, sempre!» Furono delle prigioniere francesi a spiegare la verità alle nuove arrivate italiane: gas e forno crematorio. «Sono pazze» pensarono le ingenue. No. Resta «lo stupore, lo sbalordimento: ma io che ci faccio qui, che posto è questo». Perchè, perchè, perchè? Ma non c’era più papà a dare una risposta: era già morto.
Si andava al lavoro marciando in colonna, incespicando, cantando canzoni tedesche. I ragazzini della Hitlerjugend vedevano questa scena e invece di impietosirsi, o di avere almeno la decenza di tacere e vergognarsi, urlavano insulti e sputavano contro gli scheletri umani che un tempo erano donne. «Li odiavo a morte; poi tanti anni dopo quando sono diventata nonna ho capito che mi facevano pena, e ho realizzato che potevo finalmente parlare, ero liberata dall’odio».
Le selezioni erano un altro momento di orrore, un "si salvi chi può" generale. Le "commissioni" sceglievano chi salvare e chi no. Un medico tedesco ebbe l’ardire di notare che la cicatrice di una vecchia operazione di appendicite era fatta male: lui sì che le sapeva lasciare che quasi non si vedevano. E la salvò. Quando ad essere mandata in gas fu la sua amica Jeanine, francese, che ci aveva rimesso due dita sotto uno strumento di lavoro, Liliana non si voltò. Non se lo è mai perdonato.
Poi la marcia della morte, in 56mila, per sfuggire all’avanzata dell’Armata Rossa. Non un gesto di pietà o di compassione dai civili tedeschi. Si lottava per le immondizie raccolte nei bidoni. Si mangiava la terra, l’erba. Si moriva ai lati delle strade. Si avanzava, un passo dietro l’altro, meccanicamente, come automi, fra le brutalità delle guardie. Poi in primavera, il miracolo della vita, dell’erba che spunta, delle foglie sugli alberi, visti dall’ultimo campo, nel nord della Germania. Le prime parole di pietà: da dei soldati francesi prigionieri ormai da quasi cinque anni: non avevano nemmeno capito che erano donne, per come erano conciate. «Non morite proprio ora» dicevano «la liberazione è vicina». «Avevamo male al cuore dalla felicità» racconta Segre. I tedeschi fuggirono verso ovest, verso gli americani. L’alternativa era l’orda di Stalin, più temuta di quella di Gengis Khan. «Le guardie si misero in borghese. Così anche il comandante dell’ultimo campo, un SS elegante e crudele. Cacciarono via i cani, che non sapeano che fare, dove andare; si spogliarono; il comandante gettò la sua rivoltella che finì ai miei piedi. Pensai di raccoglierla e sparargli. Poi capii che ero diversa da lui. Avevo avuto la fortuna di essere vittima, e non carnefice».
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