«La prozia Albertina era la più bella della famiglia»
Il ricordo delle discendenti collaterali di una delle vittime del ciclone che si abbatté un secolo esatto fa su Busto
«Era la più bella di tutti in famiglia, basta vedere la foto». A parlare sono Elena, Giovanna, Silvia e Clelia Tosi, sorelle e cugine. Si riferiscono alla sorella della nonna paterna, Albertina Brazzelli, perita con altri quattro nel crollo della ciminiera della fabbrica Grassi. Cinque sulle dieci vittime della tempesta del 23 luglio 1910, senza contare i numerosi feriti gravi. Un cotonificio, il Grassi, come ce ne erano parecchi, grandi e con molte centinaia di addetti, in una Busto fervente, animata dal mito del progresso industriale, e che cresceva senza posa. La Busto delle cento ciminiere, l’epoca mitica cui “la città che conta” guarda ancora oggi con disperata nostalgia, in attesa di trovare un’identità nuova per iniziare un millennio in cui non si decide appieno ad entrare.
«La nonna ci ha raccontato di quel giorno» dicono le signore, «poco ci è stato detto dell’Albertina, ma tutti ricordavano che disastro era stato. Vegn chì tusànn (venite ragazze ndr), gli aveva detto il caporeparto mentre infuriava la tempesta. Credevano di rifugiarsi nel punto più sicuro, ma il crollo della ciminiera li ha seppelliti».
Ne crollarono varie di ciminiere quel giorno, quel sabato pomeriggio, erano le 16,30 circa quando il flagello, improvviso, descritto come l’avvicinarsi di una nube fra il nero e il rosastro che crerò l’oscurità in pieno giorno, si abbatté su tutto l’Alto Milanese, da Saronno a Busto e Legnano, portandosi via circa sessanta vite in tutta la Lombardia pedemontana. A Busto caddero fra l’altro, ricorda la signora Pinuccia Cagnoni, le ciminiere del cotonoficio Ottolini (l’odierno Museo del Tessile), fra le più alte della regione: “caminoni”, come si diceva allora, da 80 e 64 metri, in mattoni. Non ressero alla furia degli elementi, crollarono tutte a est, spinte da un vento fortissimo da ponente.
E ora quella prozia mai conosciuta è lì, in una foto che la ritrae ben agghindata, come usava all’epoca, di un’eleganza severa. La riportava così nell’elenco delle vittime il quotidiano “La Voce del Popolo”, che dedicò le due pagine d’apertura al dramma: “Brazzelli Albertina fu Pietro, d’anni 25, da cinque anni maritata a Mazzucchelli Luigi e madre d’una bambina d’anni cinque, dimorante in via San Michele, vicolo Purificazione. Il crollo del tetto le aveva schiacciato la testa e rotto una gamba”. E via descrivendo senza misericordia le ferite di ognuna, viva o morta, con nomi, cognomi, mariti, padri, indirizzi: un giornalismo con meno remore di quello attuale.
Resta quella stele a ricordo di dieci vittime in un cimitero, quello di via per Lonate, che cent’anni dopo è ormai una realtà monumentale non trascurabile. E che per la signora Elena è un luogo quotidiano: vi riposa il figlio Dario, elettricista, morto nel 2001, trentenne, per un tragico incidente sul lavoro alla Malpensa. A riprova che sul lavoro si moriva allora e si muore oggi, sotto una tempesta come in una notte serena.
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