Vent’anni di interviste con i piedi scalzi

Gianni Saporetti racconta la storia della rivista Una città, nata a Forlì l'8 marzo 1991. "Le domande vengono prima delle risposte" è lo slogan usato dai fondatori

una cittàIn vent’anni hanno collezionato 2.150 interviste inventandosi uno stile tutto proprio. Una città nasce l’8 marzo del 1991. 
«Eravamo cinque amici, con tre di loro ho fatto tutte le scuole insieme. Venivamo tutti da un’esperienza di militanza politica negli anni ’60 e ’70. Poi ognuno ha preso una propria strada e ci siamo ritrovati vent’anni dopo». Gianni Saporetti, direttore del mensile, inizia così il racconto della storia della nascita della rivista. Un po’ come il ritorno dei moschettieri di Dumas, verrebbe da dire. 
«Nel 1991 ci siano ritrovati insieme con il desiderio di fare qualcosa, senza la nostalgia della passata militanza. Anzi, fortemente critici su quella esperienza che di fatto si era basata sul pensiero unico. Non sapevamo fare niente a livello editoriale. E questa è stata la nostra fortuna. Eravamo diffidenti verso una rivista saggistica, e poi non saremmo comunque stati capaci di farla. La nostra analisi partiva dalla lontananza sempre maggiore da parte della sinistra verso la realtà sociale. Arrivammo così a pensare che piuttosto che fare filosofia, era importante chiedere, ascoltare. Ero affascinato dalla militanza del dubbio, delle domande e non delle risposte».
Una riflessione che oggi è lo slogan sopra la testata: "le domande vengono prima delle risposte".

Ma da qui a fare una rivista di strada se ne deve fare. Come avete fatto?
«Abbiamo iniziato a fare interviste attraverso l’uso del registratore. Registravamo tutto quello che ci veniva detto, quasi come una tecnica di storia orale. Il difficile era poi ridurre tutto quel materiale a 30mila battute, che sono comunque un testo molto lungo. Insomma, la rivista nasce da un nostro difetto. L’importante, e lo abbiamo capito in fretta, era mettere a proprio agio l’intervistato per facilitargli questa sorta di monologo».

Che fine hanno fatto tutti i materiali audio?
«In questi anni abbiamo fatto 2.150 interviste e abbiamo un archivio gigantesco. Stiamo lavorando a un progetto, finanziato anche dalla Regione Emilia Romagna, per digitalizzare tutti gli audio, che hanno un valore enorme. I materiali scritti e pubblicati sono poi sul nostro sito».

Quali sono le interviste che vi hanno dato maggiori soddisfazioni ed emozioni?
«Ce ne sono diverse, ma su tutte sicuramente quelle con Vittorio Foa, con cui samo diventati molto amici. Poi, ricordo con grande emozione quella con Lucia Calzari, la gemella di Clementina, morta nella strage di piazza della Loggia a Brescia. Raccontava la gioia negli anni della ribellione. Un altro grande personaggio è stato Alex Langer. Anche lui ci diede un grande aiuto e ricordo ancora la telefonata del suo assistente in cui ci chiedeva uno sconto per fare 850 abbonamenti. Da allora nacque una profonda amicizia, e quando morì partecipammo alla nascita della fondazione che porta il suo nome».

La rivista oggi è editata dalla Fondazione Alfred Lewin, giovane ebreo ucciso dai fascisti a Forlì nel 1944. Come mai questa scelta e la grande attenzione alla Shoà?
«Anche qui è figlia di tante coincidenze. Quando ci siamo ritrovati ci interrogavamo su tante cose. La nostra era stata una militanza senza cultura e ci siamo resi conto che era ora di ascoltare tutte le voci. Eravamo legati alle tematiche internazionali e sostenevamo la causa palestinese, ma pian piano ci siamo avvicinati anche a Israele. Da lì abbiamo scoperto che durante la guerra a Forlì, nella nostra città, ci fu una strage di 17 ebrei dimenticata da tutti. La città aveva rimosso completamente quel pezzo di storia. Tra quei morti c’erano un ragazzo, 
Alfred Lewin, e la sua mamma. La sorella Lissi si salvò solo perché poco prima venne spedita in Inghilterra. Lei visse 57 anni nella Germania dell’Est e finalmente, grazie alla nostra azione, potè scoprire dove erano finiti la sua mamma e suo fratello. Le abbiamo fatto una lunga intervista e dopo è nata la fondazione».

La rivista è totalmente autofinanziata, non ha pubblicità e si riceve solo per abbonamento. Come sta andando dopo vent’anni di vita?
«Sopravvive, ed è un gran risultato. C’è ancora bisogno dell’autofinanziamento dei soci, ma gli abbonati stanno aumentando. Siamo a quota 2.350 e non sono pochi. Poi abbiamo altri piccoli prodotti editoriali. Noi soci fondatori ci siamo ancora tutti, ma a noi si sono uniti diversi giovani. Ci lavorano tre persone part time e tre co.co.pro, oltre a qualche decina di collaboratori esterni».

Qual è l’aspetto più bello di questa lunga esperienza?
«È arrivare con il registratore in posti dove non andresti mai. Un lavoro che nasce dal basso, da una rete di conoscenze e di amicizie dove l’intellettuale e la "persona comune" hanno lo stesso spazio. Siamo degli intervistatori con i piedi scalzi. Siamo convinti che tutta questa esperienza ci abbia insegnato l’importanza dell’ascolto. Nel nostro paese la politica è sempre più distante dalla realtà perché non dialoga, non ha capacità di ascolto. Invece questo è fondamentale perché non si finisce mai di imparare. Ascoltando le persone ci si arricchisce sempre. E questo resta il grande "privilegio" di chi fa il nostro lavoro»

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Pubblicato il 10 Marzo 2011
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