“I miei racconti sono nati in fabbrica”
Antonio Pennacchi, ospite della Libreria Biblos e del Melo, racconta il lavoro di scrittore e "Palude", il suo «feuilleton operaio»
Le storie sono quelle del filò, dei racconti fatti nelle stalle durante l’inverno, ma il filo che le tiene insieme è stato tessuto in fabbrica, tra i macchinari rumorosi della Fulgorcavi di Latina. Antonio Pennacchi – ex operaio, provocatore, Premio Strega con l’epico "Canale Mussolini" – dice di non amare il mestiere di scrivere, ma di averlo fatto per parlare alla gente come lui, a chi è (o è stato) operaio o contadino o tutte e due le cose insieme. «Io – dice – voglio scrivere in una lingua per tutti, che sia simile al parlato. Volevo scrivere per la gente che sta in fabbrica, anche se poi spesso in fabbrica si leggeva solo il Corriere dello Sport e i giornali porno. Però volevo dire anche io che non è vero che l’intelligenza appartiene solo agli strati alti». Pennacchi è stato ospite a Gallarate grazie alla Libreria Biblos, in collaborazione con assessorato alla cultura e allo spazio culturale del Melo (che ha ospitato l’incontro, presentato dalla scrittrice Helena Janeczek). Il suo nuovo romanzo, "Palude", è nato dalla riscrittura di una storia – quella di Bonfiglio Ferrari, operaio, portiere della squadra della Fulgorcavi, detto Palude per l’attitudine al tuffo nel fango dell’area piccola – che in realtà era già stata raccolta, sistemata quasi vent’anni fa: «Io facevo sempre i turni di notte. Allora a un certo punto della notte ci si trovava a qualche macchina tra noi operai e tutti mi dicevano che fare con la storia. "Fagli fa’ questo, fagli fa’ quello"». Così è nato «un libro collettivo, un feuilleton operaio».
Come in Canale Mussolini, dietro l’ironia, i passaggi divertenti, le espressioni entrate nella testa dei lettori («Maledeti i Zorzi Vila!») c’è quella che Pennacchi definisce, senza mezzi termini, rabbia: «Nei miei libri, dietro l’ironia, ci sta la rabbia: la fatica dei miei nonni, i miei zii morti nelle guerre di Etiopia e in Russia, ma pure il pagliaio incendiato nel 1919 e la terra portata via dai conti Vendramin». Maledeti i Zorzi Vila. Perché in Pennacchi, anche quando scrive partendo dagli anni Sessanta – sempre lì si torna: all’epopea di un popolo cacciato dalla sua terra dalla povertà – il Veneto, il Friuli, l’alto Ferrarese – e approdato nella nuova terra promessa, le terre di bonifica strappate alle paludi. E anche in "Palude" si affacciano i fantasmi di Mussolini e del gran promotore della bonifica Cencelli, sempre rimasti da queste parti, tra i contadini che parlano veneto e gli operai fasciocomunisti (a proposito: sta riscrivendo anche "Il Fasciocomunista"). Ma guai a farne discorso politico, anche perché «adesso quelli che si dicono fascisti stanno con Berlusconi poi sono i primi a tirar giù i filari d’eucalipti, a manomettere i canali e i fossi, a fare i grattacieli nei borghi rurali». E qui ci fermiamo, prima che Pennacchi s’incavoli perché lo si tira dentro nella polemica come fanno quando lo invitano in televisione.
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