Omicidio D’Aleo, in aula gli imprenditori gelesi

Massimo Incorvaia e Angelo Bernascone raccontano la vita impossibile degli imprenditori gelesi a Busto tra estorsioni, botte, minacce di morte e tanta paura. In aula anche un imprenditore che non ha pagato ma non ha nemmeno denunciato

Tra i gelesi di Busto Arsizio tutti sapevano, molti pagavano e tacevano, qualcuno si rifiutava ma non denunciava. Il quadro che emerge della comunità gelese, o di orgini gelesi, è quasi sconcertante per la capacità di riproduzione di un modello sociale che si pensava non poter attecchire nella produttiva e operosa. Massimo Incorvaia, ad esempio, paga e tace; si sottomette completamente alle logiche del clan e partecipa alle riunioni, viene messo al corrente di particolari sull’omicidio di Salvatore D’Aleo. Proprio per testimoniare al suo processo appare al banco dei testimoni del processo ad Emanuele Italiano (foto a sin.), il terzo del gruppo di fuoco che ha ucciso e nascosto il cadavere di Salvatore, in quel 2 ottobre del 2008 a Vizzola Ticino.

Incorvaia è la faccia presentabile di Nicastro e Vizzini, i due capimafia bustocchi che oggi sono pentiti: «Andavo io a trattare per avere le commesse e poi loro mi chiedevano di girargli i cantieri – racconta – altre volte si rendevano conto di non essere in grado di fare dei lavori e mi chiedevano solo la tangente». Continue richieste di danaro che Incorvaia racconta nel dettaglio, assegni da 5-10-20 mila euro per soddisfare i bisogni del gruppo. Insieme ad un altro imprenditore, in un caso, è lui ad andare direttamente a Roma al cospetto di Gino Rinzivillo, capofamiglia al quale doveva andare una buona parte delle estorsioni e dei traffici illeciti di Busto e della Lombardia. Incorvaia finisce in carcere più volte ma non accetta la protezione dello Stato e non parla, lo ha fatto solo quando Vizzini ha cominciato a raccontare. Al pubblico Ministero Giovanni Narbone racconta anche di essere finito in cella con Italiano: «Gli dissi che Vizzini aveva deciso di parlare dell’omicidio di D’Aleo e che lo tirava in ballo – racconta Incorvaia al giudice Novik e alla corte d’Assise – ma lui mi rispose che non ne sapeva niente e che Vizzini avrebbe dovuto fare la stessa fine».

Subito dopo è il turno di Angelo Bernascone, collaboratore di giustizia dal 2006 quando il gruppo dei gelesi di Busto lo mise sul lastrico nel giro di tre anni (tra il 2003 e il 2006 gli estorsero qualcosa come 650 mila euro, ndr): «L’anno scorso finii tre settimane in galera perchè non avevamo soldi per comprare da mangiare e decisi di tentare uno scippo», finì male. Bernascone racconta della «persecuzione che ero costretto a vivere ogni giorno – racconta – mi cercavano continuamente e mi chiedevano soldi, Italiano c’era sempre insieme a Nicastro e Vizzini anche se tra tutti erano divisi e pieni di rancore uno con l’altro». Bernascone partecipava alle riunioni che avenivano nei bar, nei ristoranti e nei circoli: «Nel 2006 decisi di andare dai Carabinieri dopo che Fiorito e Italiano mi piacchiarono nel mio ufficio di Sant’Anna – e prosegue – volevano uccidermi, me lo dissero chiaramente che mi avrebbero o impiccato o sparato in testa ma mi salvò una telefonata di un cliente col quale dovevamo fare un affare». Gli affari, sempre e a qualunque costo. Bernascone, inoltre, fa il nome di Carmelo Mendolia (killer di Salvatore Padovano, boss della sacra corona unita leccese), arrestato a Gallarate nel 2009 e amico di Emanuele Italiano. Il leit motiv delle testimonianze dell’udienza di oggi, martedì, è sempre lo stesso: «Tutti gli imprenditori gelesi di Busto pagavano il pizzo a Vizzini e Nicastro – conclude Bernascone – e tutti sapevano che ad uccidere Salvatore D’Aleo erano stati loro». Tra i tanti cita il bar vicino all’ospedale cittadino, l’impresa Mancuso, i Cascino, gli Stella.

Tutti, o quasi perchè poi entra in aula Orazio Di Dio, imprenditore artigiano titolare insieme agli altri due fratelli dell’impresa omonima: «Nicastro e D’Aleo ci chiesero 1500 euro ma decidemmo di non pagare – racconta con calma e pochissime parole – poi mi incendiarono la macchina ma non bastò a farci cambiare idea». Decisero anche di non denunciare. Il presidente Novik chiede: «Perchè non vi siete costituiti parte civile?», la risposta «perchè non sapevo nemmeno che c’era stato il processo. Sà, siamo gente riservata». Il giudice insiste: «Ma almeno ha avuto i soldi dell’assicurazione per l’incendio all’auto?», risposta «Non ho saputo niente su chi fosse stato anche se tutti avevano visto D’Aleo passare due o tre volte prima che bruciasse». La placida accettazione della realtà supera anche la voglia di giustizia.

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Pubblicato il 29 Gennaio 2013
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