Stravinsky e le paure dell’uomo moderno
Cent’anni anni fa, la prima rappresentazione della “Sagra della Primavera”
Igor Stravinsky attraversò la storia del Novecento come un punto interrogativo. Al pari di Picasso seppe uniformarsi ai cambiamenti, senza parteciparvi veramente, per lasciare un segno a volte indecifrabile ma indelebile. Il 19 maggio 1913 – poco manca ai cent’anni – i Ballet Russes portarono in scena per la prima volta “Le Sacre du printemps” – la Sagra della Primavera, dove “sacre” sta però per rituale – che molti definirono come la sua Sinfonia “Eroica”. Il parallelo con Ludwig van Beethoven è perfetto: il lavoro raggiunge vertici creativi ed espressivi dall’impatto cosmico. Il divenire di una coscienza continuamente provata, perseguitata, rivoltata come solo nell’inconscio collettivo di Jung sarebbe mai potuto accadere. Una giovane vergine in trance, danza al cospetto degli stregoni della tribù in attesa del sacrificio propiziatorio per ingraziarsi la benevolenza degli dei all’arrivo della Primavera. Una «confluenza tra l’etnologico e il mitico», dice Eugenio Trias, uno fra i massimi filosofi spagnoli contemporanei. Russia precristiana, quasi neolitica, nella quale Stravinsky conduce i suoi studi sul ritmo allo zenith dello sconvolgimento percettivo. Non si tratta propriamente di musica, ma di humus vitale nel quale gli uomini risorgono secondo codici primordiali: il passato rigenera il presente.
L’oggi e il domani si incontrano su un terreno comune: l’ignoto. La giovane assassinata, il primitivismo che programma e ritualizza la fine. Perdita della verginità; nascita della fecondità: il vero significato del matrimonio si manifesta nella Sagra della Primavera con una forza inaudita. Stravinsky strapazza la tradizione, eppure le melodie lituane si sporgono con sapiente coordinamento in questa tessitura febbrile e “meccanica”. Folclore rimesso a nuovo, spolpato e rivitalizzato, tradotto ed esibito con forza catastrofica. Equilibrio o caos? Sarà mai possibile abituarsi ad un spazio che non ci appartiene? La musica della tradizione è cancellata dall’arte fredda, vorace ed emorragica dell’antiromanticismo. Eppure, la nascita ha le sembianze della distruzione: per vivere, e resistere, ci si deve lasciare alle spalle ciò che si pensa sia la forma perfetta della nostra esistenza. Sarà mai questa la vera dimensione dell’uomo moderno?
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