La legge Delrio vìola la Carta europea delle autonomie locali
Secondo il giurista Mario Speroni la legge sulle province non rispetta un obbligo internazionale. Ogni cittadino può' rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo
Varesenews ha dedicato molta attenzione alla questione delle province. Lo scopo del governo Renzi è noto a tutti: provvedere, in un primo tempo, ad un loro depauperamento di competenze e di risorse, per giungere, poi, dopo l’eliminazione delle province dal testo costituzionale, alla completa soppressione di tali enti, che pur risalgono all’unità d’Italia. La logica di questa operazione, che ha la sua prima origine dalle richieste dei due giornalisti Rizzo e Stella, autori del fortunato volume “La Casta”, è – dal punto di vista economico- puramente demagogica, come ha dimostrato la stessa corte dei conti, in una relazione al parlamento, che ho già avuto occasione di esaminare, in un mio precedente intervento.
Lo stesso Rizzo – in diversi talk-show televisivi – ha poi mostrato di aver cambiato idea: ora, secondo lui, basterebbe una seria riduzione del numero delle province. Evidentemente si è reso conto del caos che l’attuazione della sua proposta originaria ha suscitato e continuerà a suscitare: le funzioni che svolgevano e quelle che ancora svolgono le province dovranno pure essere affidate a qualche altro ente (lo stato, le regioni, i comuni, gli ancora fantomatici consorzi di comuni previsti dalla legge Delrio).
C’è poi il grosso problema della collocazione del personale: si perdono competenze professionali in certi settori e nel contempo si impone il trasferimento ad altri enti di impiegati, destinati ad esercitare nuove mansioni, per le quali non hanno alcuna preparazione. Quindi, è solo la demagogia che sta dietro a questa operazione. Come ho già avuto occasione di dire altre volte, ben diversamente la pensava Luigi Einaudi, il quale, riflettendo, nel 1944, sull’ordinamento della futura Italia democratica, ipotizzava un’ “Italia basata sulle autonomie provinciali”- simili ai cantoni svizzeri- con l’abolizione delle prefetture. Il suo intervento, pubblicato originariamente su un supplemento di un giornale di Lugano – dove si trovava esule – “Gazzetta ticinese”, si può adesso facilmente leggere nella sua opera “Il buon governo”.
Ora, la legge Delrio è stata dichiarata costituzionalmente legittima dalla sentenza della corte costituzionale n.50 del 26 marzo scorso. Avendo collaborato alla predisposizione del ricorso che, in proposito, aveva presentato la regione Lombardia – assieme ad altre regioni (Campania, Puglia e Veneto)- vorrei fare qui un’osservazione riguardante una questione fondamentale, relativamente alla quale la corte si è sicuramente sbagliata e che potrebbe essere ancora riproposta davanti alla CEDU, cioè la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha sede a Strasburgo – quella che si è appena pronunciata sui fatti di Genova.
Il punto è questo. L’Italia ha sottoscritto la Carta europea delle autonomie locali (CEAL), con la convenzione di Strasburgo del 15/10/1985. Tale convenzione è stata ratificata e resa esecutiva dalla legge 30/12/1989 n.439 ed è quindi entrata a far parte dell’ordinamento dello stato italiano, oramai da lungo tempo. L’art.117, c.1, della costituzione, stabilisce che la potestà legislativa dello stato e delle regioni è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Tra questi ovviamente anche la Carta europea delle autonomie locali. Vi è quindi un obbligo inderogabile, da parte dello stato italiano, di rispettare le disposizioni della Carta. Orbene, essa, all’art.3, così definisce il Concetto di Autonomia Locale:
1.Per autonomia locale, s’intende il diritto e le capacità effettive, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare, nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici.
2.Tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee, costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti, cioè di tutti i cittadini elettori. Detta disposizione non pregiudica il ricorso alle Assemblee di cittadini, al referendum o ad ogni altra forma di partecipazione diretta dei cittadini, qualora questa sia consentita dalla legge.
Dunque, la Carta stabilisce un obbligo, per i paesi aderenti – tra cui l’Italia – di far sì che le elezioni degli enti locali rispettino queste caratteristiche, tra cui quella che il suffragio debba essere diretto e universale, cioè di tutti i cittadini elettori. Come è noto, invece, la legge Delrio prevede che il presidente della provincia sia eletto esclusivamente dai sindaci e dai consiglieri dei comuni di appartenenza (art.1,c.58) e, quindi,. non direttamente dai cittadini. Anche il consiglio provinciale è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni di appartenenza (c.69). Sono eleggibili i sindaci ed i consiglieri comunali in carica (c.69). Per quanto poi riguarda le città metropolitane (Milano), il sindaco del capoluogo – cioè il sindaco Pisapia – “è di diritto” il sindaco metropolitano (c.19).
In proposito, va rilevato che la città di Milano ha 1.324.169 abitanti contro i 3.176.180 abitanti della provincia, cioè neppure il 42% dell’intera popolazione. Però l’elezione del sindaco della città metropolitana non è affidata a tutti gli abitanti, ma ai soli residenti nel comune di Milano. Il consiglio metropolitano di Milano è composto da 18 consiglieri (c.20), eletti dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni appartenenti alla città metropolitana. Sono eleggibili solo i sindaci ed i consiglieri comunali in carica. La cessazione della carica comporta la decadenza da consigliere metropolitano (c.25). La possibilità di un’elezione diretta, da parte dei cittadini, del sindaco e del consiglio metropolitano – con un sistema elettorale che dovrà essere determinato da una legge dello stato, che non è ancora stata emanata – è ammessa dalla legge Delrio, se contemplata dallo statuto della città metropolitana. Ma in questo caso il territorio del comune capoluogo, cioè Milano, dovrà essere frazionato in più comuni, e ciò prima delle elezioni. Per provvedere a tale frazionamento è prevista una lunga procedura, che comprende una deliberazione del consiglio comunale approvata dai due terzi dei consiglieri (art.6, c.4, T.U. enti locali), cui deve seguire un referendum tra tutti i cittadini della città metropolitana, approvato dalla maggioranza dei partecipanti al voto. Si tratta di un’ipotesi praticamente impossibile.
A fronte di tutto ciò, la corte costituzionale ha affermato che la Carta europea della autonomie locali sarebbe un “documento di mero indirizzo” – quindi non vincolante – facendo riferimento ad un’altra sua sentenza – la 325 del 2010. Solo che, in quel caso, si trattava di un’altra questione, e cioè di individuare nella Carta europea delle autonomie locali una specifica indicazione di competenza degli enti locali, nel disciplinare l’affidamento dei servizi pubblici, cosa che in effetti non c’è. Ben diverso è – come abbiamo visto – quello che stabilisce l’art.3, c.2 – circa l’elezione dei consigli e delle assemblee degli enti locali. Non è vero, quindi, quanto afferma la sentenza della corte che la Carta si limiti a “richiedere che i membri delle assemblee siano “freely elected””. “Freely elected” non è altro che la traduzione – nel testo inglese della Carta – dell’espressione “a suffragio libero”. Ciò dimostra la superficialità della sua lettura, che sembra non sia stata fatta – come si sarebbe dovuto – esaminando il testo, in italiano, contenuto nella legge di ratifica 30/12/1989 n.439. La Carta europea dell’autonomia locale prevede inoltre – all’art.9 – che le autonomie “hanno diritto a risorse sufficienti, di cui possono disporre liberamente nell’esercizio delle loro competenze” (c.1). Una parte almeno di queste risorse “deve provenire da tasse ed imposte locali, di cui esse hanno facoltà di stabilire il tasso nei limiti previsti dalla legge” (c.3). Il tutto deve avere una “natura sufficientemente diversificata ed evolutiva”, così da “consentire loro di seguire l’andamento reale dei costi d’esercizio delle loro competenze” (c.4). Dovranno quindi “essere consultate, per quanto riguarda le modalità di assegnazione nei loro confronti delle risorse nuovamente distribuite” (c.6).
V’è da aggiungere che la stessa corte costituzionale, a seguito di un incontro con una delegazione del “Congress of local and regional authorities” del Consiglio d’Europa, avvenuto il 3/11/11, ha affermato che si può ritenere che la Carta europea dell’autonomia locale, “costituendo atto di diritto internazionale, recepito con legge ordinaria nell’ordinamento interno, ricada nell’alveo della previsione del 1° comma dell’art.117 cost., che impone al legislatore statale e regionale il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. Pertanto, al legislatore “non dovrebbe essere consentito dettare discipline con essa contrastanti” (si cfr. in proposito, sul sito della corte costituzionale, L’approvazione in Italia della “Carta europea dell’autonomia locale”, in www.cortecostituzionale.it/documenti/conv). Si aggiunga che, con riferimento ad un disegno di legge costituzionale di soppressione delle province, varato dal governo l’8/9/11, il Congresso dei Poteri locali e Regionali, organo del consiglio d’Europa, ha dichiarato: “La scelta costituzionale di abolire le province crea confusione e comporta il rischio di centralizzare le funzioni amministrative, in contrasto con il principio della sussidiarietà”, che è previsto anche dall’art.118 della costituzione.
La sentenza del 26 marzo fa anche riferimento ad un’altra, risalente niente meno che al 1968 – la n.96 – quando la Carta europea della autonomie locali non era ancora nata – che aveva affermato la legittimità costituzionale degli artt.7 e 10 della l.r. Sicilia 16/1957, i quali prevedevano, per le province, elezioni di secondo grado. Va ricordato, in proposito, che Leopoldo Elia– futuro presidente della corte costituzionale stessa – aveva pubblicato una nota, fortemente critica (in Giur.Cost. 1968, 1531). L’Elia affermava che il voto diretto, previsto dall’art.48, cc.1 e 2, cost., debba obbligatoriamente applicarsi alle elezioni della province e dei comuni, di cui parlava l’art.128 cost., e concludeva dicendo che “è da dubitare fortemente che le elezioni di secondo grado possano considerarsi costituzionalmente legittime”.
È ancora possibile fare qualcosa? La risposta è positiva. Come ho detto sopra, qualunque cittadino elettore di una provincia o di una città metropolitana può rivolgersi, entro il termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza della corte costituzionale, alla Corte europea dei diritti dell’uomo, chiedendo che si pronunci sulla questione della violazione, da parte dell’Italia, della Carta europea delle autonomie locali. E’ una procedura abbastanza semplice e sarebbe un atto di grande dignità e democrazia.
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