Negli Usa si rischia sull’innovazione, in Italia no
Roberto Dolci vive a Boston dove ha fondato Aizoon Usa, azienda che fornisce industrial Iot a molte multinazionali
Le ragioni per cui si emigra dall’Italia sono sempre le stesse, non importa se sei un operaio, un laureato o un aspirante imprenditore. Incertezza, mancanza di prospettive, scarsa presenza di capitali di rischio e un sistema che non premia il merito sono una spinta nemmeno troppo gentile ad andarsene. Roberto Dolci, dopo una laurea in ingegneria al Politecnico di Torino è emigrato due volte, la prima in Inghilterra, la seconda a Boston nel Massachussets, uno dei sei stati che compongono il New England. Qui ha fondato Aizoon Usa, azienda che fornisce servizi di innovazione tecnologica, soprattutto industrial Iot (Internet delle cose), ad oltre cento multinazionali, tra cui Amazon. (Nella foto Roberto Dolci)
Dolci ha accompagnato la TechMission di Univa, Confindustria e Digital innovation hub Lombardia, nella terra colonizzata dai padri pellegrini nel 1620, considerata uno dei poli mondiali dell’innovazione tecnologica.
«In Inghilterra si lavora più o meno come in Italia – ha esordito l’imprenditore – mentre negli Usa é completamente diverso».
In che cosa consiste questa diversità?
«Nel business americano l’affetto per l’azienda non esiste, c’é un turnover notevole e quindi trattenere le persone è molto difficile. Inoltre la burocrazia qui é notevole»
É positivo o negativo?
«La burocrazia é funzionale al sistema educativo che é molto procedurale. Tutti studiano le stesse ricette, nessuno esce dagli schemi ed è questo il motivo per cui gli studenti italiani sono molto apprezzati per la loro forma mentis che é critica e creativa. La differenza fondamentale consiste nel fatto che qui i bambini fin da piccoli sono abituati all’autonomia e all’imprenditorialità, fanno i mercatini sotto casa si danno da fare per guadagnare qualche dollaro. Qui non esiste che un ragazzo se né stia a casa tre mesi in estate senza fare niente e se lo fa, viene criticato. Infine, negli Usa il fallimento viene molto tollerato, é indice di capacitá di rischio. A questo proposito é interessante sapere che il 67% dei fallimenti é dovuto a problemi di salute, nonostante il sistema sanitario sia piuttosto caro, io pago 21mila dollari l’anno»
Quale consiglio dà a un imprenditore italiano che si deve rapportare con il mercato Usa?
«Qui il cliente non ti lascia spazi di espansione e tu devi sempre dire che fai bene una sola cosa e non che ne fai due contemporaneamente. E poi c’è l’aspetto relazionale che non è cosa da poco. Le faccio un esempio. Un’azienda italiana, specializzata in prodotti per dighe, viene contattata da un cliente americano che gli spedisce un’offerta con una corposa descrizione di 160 pagine e gli ingegneri italiani, a loro volta, rispondono con un documento di sole 6 pagine, quindi in modo molto pragmatico. Gli americani non si sono fatti più sentire perché quella risposta così stringata é stata interpretata come offensiva. Bisogna imparare a comunicare tenendo ben presente il contesto»
Dal punto di vista degli investimenti qual è la maggiore differenza tra gli Usa e l’Italia?
«Qui ci sono persone che rischiano capitali in nome della ricerca e dello sviluppo e i risultati si vedono. Non c’è la paura del fallimento, anzi. In Italia invece c’é una politica di finanziamenti a pioggia e le imprese partecipano ai bandi con l’obiettivo primario di ottenere i soldi, come succede con chi decide di adottare il Mes e sistemi di Ict in azienda. In America gli unici soldi pubblici arrivano dagli enti locali che sostengono le imprese innovative con incentivi e sgravi fiscali per attirarle sul loro territorio».
Come spiega il fatto che l’Italia, nonostante tutti i “malanni” che lei ha elencato, é ancora il secondo manifatturiero in Europa, dopo la Germania?
«Ci sono molte aziende, soprattutto medie, che investono ancora in ricerca e sviluppo e fanno prodotti ad alto valore aggiunto. Ciò detto, per chi fa innovazione in Italia manca una prospettiva certa almeno per il medio periodo. L’esempio di scuola è il fotovoltaico, settore in cui paesi come Spagna e Germania sono cresciuti in maniera coerente, a differenza dell’Italia che di colpo ha cambiato politica creando una situazione di incertezza tra gli investitori esteri che hanno abbandonato il mercato italiano. Noi siamo tra questi».
Secondo lei, esiste una via italiana all’innovazione?
«Credo di sì, ma occorre che il sistema nel suo complesso cambi, che si abbandoni la logica dei bandi e si sostengano le imprese che fanno innovazione, ricerca e sviluppo»
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