Lo smart working ci rende più felici?

La tecnologia corre, i rapporti si fanno più liquidi ma l'uomo resta un animale sociale che vive di relazioni e non solo di collegamenti. Parte dalla Liuc Business School la riflessione sul grande cambiamento che stiamo vivendo nel mondo del lavoro e non solo

smart working

Dopo quasi due anni, la fatica di Zoom si fa sentire a tutti i livelli. Per smaltirla senza fare danni ci vuole maggiore consapevolezza da parte di tutti, a partire dalle aziende e dai lavoratori. C’è bisogno di capire meglio e di più rispetto a quanto è successo, perché le trasformazioni che sono avvenute nel mondo del lavoro a causa della pandemia, non sono più un fatto contingente, ma strutturale e pertanto destinato a rimanere e a cambiarci per sempre sul piano delle relazioni, dell’organizzazione nel lavoro e più in generale nella vita.

Il webinar organizzato dalla Liuc Business school dal titolo “Il futuro ha radici nel passato” ha portato i numerosi partecipanti ad assistere in prima fila alla partita più interessante di questo tempo: lo smart working. Ad arbitrarla è stato chiamato il giornalista del “Corriere della Sera” Dario di Vico in un luogo che ha fatto del cambiamento la sua pratica quotidiana: la fabbrica felice di Eolo, società di telecomunicazioni di Busto Arsizio, che ha nel suo amministratore delegato e fondatore, Luca Spada, il suo testimonial più appassionato, uno che quando i collaboratori si fermano troppo in azienda li invita senza spinte gentili ad andarsene a casa.

IL VIRTUAL TEAM

Il timone dell’incontro è stato il libro “Virtual team. Nuove sfide manageriali fra libertà e regole” (Franco Angeli), firmato da Andrea Martone e Massimo Ramponi, entrambi docenti dell’università Liuc. Il punto di partenza degli autori è una considerazione di fondo: i due poli tra cui oscillano le nostre vite, la presenza e il virtuale, generano uno strabismo manageriale.
«In questo straordinario laboratorio sociale – spiega Martone – lo smart working si caratterizza per una forte polarizzazione: le nuove tecnologie spingono verso il futuro e al contempo alcuni elementi tradizionali diventano sempre più importanti».
In questa fase c’è una sorta ritorno al futuro. Da una parte spopolano le piattaforme per comunicare a distanza e gli incontri virtuali, dall’altra c’è il forte bisogno di una maggiore umanizzazione. Nonostante il digitale spinga verso la liquidità dei rapporti, rimaniamo animali sociali che hanno bisogno almeno di una dose minima di contatto, di emozioni non mediate da uno schermo, di relazioni dove le coordinate necessarie e sufficienti siano ancora la condivisione dello spazio fisico e del tempo.

UNA NUOVA LEADERSHIP PER GOVERNARE GLI OPPOSTI

Per governare questo strabismo, occorre una leadership che sia in grado di conciliare gli opposti e riportare armonia in una situazione di disequilibrio. Come si fa? Martone, per rappresentare questa disarmonia, utilizza l’immagine del tempio greco, sinonimo di armonia perfetta, riproponendo una visione che un grande leader come Adriano Olivetti aveva posto al centro della sua vita. La leadership deve generare non solo verità ma anche bellezza.
«Il compito della nuova leadership – spiega Martone – è armonizzare gli obiettivi socio-relazionali e gli obiettivi di risultato». Per guarire dallo strabismo, esiste una ricetta che prescrive: la cura della relazione, la presa in carico da parte di ciascuno delle proprie responsabilità, la motivazione e i processi.

I FALSI MITI

Quando ci si confronta con fenomeni nuovi e in assenza di una letteratura consolidata, l’effetto è la proliferazione di falsi miti. In materia di smart working e nuova leadership, secondo Massimo Ramponi, ne esistono almeno quattro. Il primo riguarda la complessità della tecnologia. «Se fosse stata il fattore più complesso – osserva lo studioso – non si capisce come in pochi mesi si sia riusciti ad aver performance così alte. La tecnologia è solo un grande acceleratore». Altro falso mito è affermare che ormai si lavora tutti per obiettivi, ma poi si ascoltano battute di pessimo gusto sul collaboratore che stacca cinque minuti prima. E ancora, all’aumentare della distanza per favorire l’interazione bisogna aumentare la comunicazione. «È esattamente il contrario – dice Ramponi – se c’è di mezzo la tecnologia occorre utilizzare una comunicazione essenziale dal punto di vista linguistico, essenziale nei contenuti, ma soprattutto essenziale nei target». Infine, non è vero che concedendo più libertà bisogna rinunciare a regole e processi che invece vanno ridefiniti.

IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO

Ci sono nuove e vecchie parole – rivisitate nel loro significato – che ridisegnano il perimetro del rapporto di lavoro ai tempi della pandemia. Fiducia, felicità, libertà, distanza, condivisione, responsabilità, obiettivi, armonia popolano il nuovo vocabolario dell’imprenditore. Un bel vocabolario che però non elude la domanda del giornalista Di Vico che arriva puntuale: «Ma siamo veramente soddisfatti di quello che ha portato questa accelerazione tecnologica?». Una domanda che ricorda il titolo di una commedia di Aldo Giovanni e Giacomo: “Chiedimi se sono felice”.
La felicità è una variabile soggettiva che però imprenditori come Luca Spada hanno messo al centro del loro modo di fare impresa. I pilastri su cui poggia sono due: la fiducia reciproca e il senso di appartenenza, che non sono un automatismo e non vengono garantiti da clausole contrattuali, ma vanno coltivate nel tempo a partire dalla ridefinizione degli spazi fisici in azienda.
«Il concetto di ufficio tradizionale è già cambiato – sottolinea Spada – Gli uffici sono più dei luoghi di incontro per fare socializzazione fisica, luoghi di aggregazione a 360 gradi sia per lavorare che per passare del tempo insieme e condividere le esperienze, non necessariamente di lavoro. C’è un piacere nello stare insieme che noi traduciamo nella formula beviamoci un caffè».

CAMBIARE DALLA BANCA ALL’UNIVERSITÀ

Le testimonianze dei partecipanti alla tavola rotonda hanno evidenziato alcuni fattori comuni e qualche discontinuità. Secondo Alessandro Foti, amministratore delegato di Finecobank, l’accelerazione tecnologica generata dalla pandemia, ha portato maggiore efficienza nelle organizzazioni, più consapevolezza nelle persone e una confidenza con la tecnologia prima inesistente o residuale, fattori che hanno innescato un cambiamento sociale epocale. 
Per chi opera nei servizi questo cambiamento poteva essere già nelle corde, in particolare nel settore bancario, dove una metamorfosi indotta dal digitale era già in atto da tempo. Diverso invece il caso del manifatturiero dove è richiesta una presenza fisica per la produzione. Per Giovanni Brugnoli, imprenditore tessile e vicepresidente di Confindustria con delega al capitale umano, le imprese hanno dovuto riadattare il loro modello di business «cercando di far convivere queste due anime, una smart e una in presenza». Una sfida che riporta al centro il tema delle competenze e della formazione.
Per un’università il cambiamento innescato dalla pandemia si è tradotto nella sigla Dad, la didattica a distanza, non sempre descritta in termini positivi da studenti e professori. Con un certo anticipo, i rettori delle università della Lombardia già a partire dal 20 febbraio 2020, anche se non c’era ancora un quadro normativo, decisero di chiudere l’attività in presenza passando, appunto, a quella a distanza. «Noi siamo entrati in guerra – ha concluso Federico Visconti rettore dell’università Liuc – con un nostro modello tradizionale e abbiamo reagito grazie agli investimenti fatti dal cda, alle deleghe, alla forte interazione tra docenti e struttura, a un intenso lavoro di gruppo, dove è stato dato grande spazio ai giovani. È tutto grasso che cola e spero che resti, ma ora va raggiunto un nuovo equilibrio. Rimane aperta la questione dei risultati che per un’università si misura sul processo di crescita dei suoi studenti. Credo che nel nostro caso il pendolo vada riportato il più possibile al 19 febbraio 2020, perché ci sono dei vulnus da recuperare, a partire dalla valutazione a distanza, trattenendo il buono generato da questa esperienza».

In carne e ossa è meglio. L’eccesso di smart working mina l’innovazione

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 20 Gennaio 2022
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