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I cento anni di Beppe Fenoglio, dalle Langhe alla Resistenza senza retorica
Il 1° marzo del 1922 nasceva lo scrittore di Alba, tra i maggiori protagonisti della letteratura italiana del Novecento. Un outsider che nell'Italia fascista parlava inglese, prese le armi insieme ai comunisti e poi in quella repubblicana fu monarchico
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«Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944». Lo spirito antiretorico, beffardo di Beppe Fenoglio si può riassumere anche solo in una frase, quella che apre il racconto lungo “I ventitré giorni della città di Alba”, forse la sua opera più nota.
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Beppe Fenoglio è nato un secolo fa, il 1° marzo 1922. Compirebbe cent’anni oggi, non fosse che se n’è andato già da decenni: morì nel 1963, per un tumore, a 41 anni di età. La sua opera era in buona parte inedita, in gran parte poco conosciuta nel momento in cui scomparve.
Partigiano “badogliano” nelle file del maggiore Enrico Mauri, Fenoglio fu il cantore della Resistenza spogliata dalla retorica e insieme del mondo in cui lui stesso l’aveva vissuta, le Langhe, allora terra dura che poco concedeva alla poesia.
In vita, fin dai tempi della pubblicazione dei Ventitrè giorni, l’opera di Fenoglio fu accolta con freddezza da molti. Pur pubblicato da Einaudi sotto la supervisione di Calvino, lo scrittore fu subito criticato da sinistra, per quel racconto antiretorico della Resistenza, confermato anche dal suo capolavoro, “Il partigiano Johnny” e dall’incompiuto “Una questione privata”. Era una Resistenza fatta di gente che faceva il proprio dovere, ma anche di furbi, pavidi, “voltagabbana” dai risvolti quasi comici. E insieme di eroi di un’epica omerica traslata sulle alte colline sopra Alba.
Nella biografia dello scrittore (e nei suoi alter ego letterari) la Resistenza diventava un atto individuale di ribellione morale, prima che politica. Con un gusto anche ostentato per l’essere minoranza: il giovane Fenoglio al liceo si era formato con professori antifascisti (Leonardo Cocito e Pietro Chiodi), era divenuto un appassionato cultore della letteratura inglese, giocava a basket, parlava in inglese alle ragazze: un outsider dell’Italia fascista e autarchica. Dopo l’8 settembre fu partigiano conservatore in una formazione a guida comunista (“in the wrong sector of the right side”), poi autonomo irriducibile con il maggiore Enrico Mauri, monarchico mentre nel resto del Nord trionfava l’opzione repubblicana.
Nel clima plumbeo della Guerra Fredda, Fenoglio finì stroncato dal PCI e insieme poco apprezzato anche dal blocco opposto, quello centrista e conservatore che negli anni Cinquanta non parlava volentieri della Resistenza, lasciandola – per così dire – nelle mani delle sinistre. I partigiani intanto incontravano le difficoltà – materiali ed esistenziali – del ritorno alla vita civile, che lo scrittore ritrasse in opere come “La Paga del sabato”.
Fuori dal tema della guerra partigiana, raccontò la durezza del mondo contadino delle Langhe, con toni ben diversi dall’immagine che oggi ne abbiamo: una descrizione cruda nel restituire la realtà drammatica delle campagne escluse dall’industrializzazione, dominate da rapporti immutabili e non di rado crudeli (come nel racconto “Un giorno di fuoco”). Appartiene a questo filone il racconto lungo “La malora”, una delle sole tre opere pubblicate con Fenoglio vivente.
La scoperta dell’opera di Fenoglio fu infatti in gran parte postuma, a cominciare (1968) dalla pubblicazione del “Il partigiano Johnny”, con la sua prosa epica ancora fitta di espressioni inglesi. Il materiale e gli appunti lasciati in archivio richiesero un lungo lavoro e la fortuna critica arrivò nell’arco di decenni, attraverso il lavoro di Maria Corti e poi con lo snodo fondamentale nell’opera del varesino Dante Isella, che pubblicò l’edizione critica di Romanzi e racconti, con Einaudi-Gallimard nel 1992.
Nella nuova fase storiografica e di narrazione della Resistenza, libera da vincoli ideologici, nuovi lettori incontrarono negli anni Novanta il fascino potente degli eroi animati da urgenza interiore: Milton, Johnny, il silenzioso soldato siciliano Michele, il comandante autonomo Nord, “il biondo”, il tenente comunista reso eterno come «un greco ucciso dai persiani duemila anni avanti».
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Le pagine fenogliane, quasi naturalmente cinematografiche, si tramutano allora in film, ispirano album musicali.
In questa nuova lettura, la Resistenza stessa si ricompone in una nuova unità: non quella celebrata dei partiti riuniti nel CLN, ma più legata all’esperienza dei suoi protagonisti. Diversi per posizione politica, imperfetti e sofferenti, ma con un imperativo morale che li univa.
Un legame che risuona nel pensiero fatto dal partigiano Johnny la sera in cui scopre della morte di due compagni e amici: «E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno».
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