I giornalisti del New York Times si oppongono al ritorno in ufficio forzato, minacciando lo sciopero
In 1300 hanno firmato una lettera in cui dichiarano che continueranno a lavorare da remoto quando e quanto vogliono
1300 giornalisti, fotografi, redattori e dipendenti di staff hanno firmato una lettera in cui dichiarano che continueranno a lavorare da remoto quando e quanto vogliono, come risposta alla richiesta dell’editore di tornare a lavorare in ufficio 3 giorni alla settimana a partire da questa settimana. (Foto di tacskooo da Pixabay)
A versare benzina sul fuoco, ha contribuito la poco brillante iniziativa di offrire un lunch box gratuito a chi va in ufficio. Apriti cielo. Con il record di 101 premi Pulitzer vinti, il New York Times è uno dei giornali più stimati e riconosciuti del mondo per la qualità del lavoro delle sue persone. I suoi “dipendenti” si sono sentiti offesi dall’idea che bastasse un tramezzino freddo e una bibita gassata a persuaderli. Nella lettera si argomenta in particolare che “essere costretti a tornare in ufficio durante un periodo di alta inflazione significa che i lavoratori dovranno spendere più soldi per benzina, trasporti pubblici, vestiti e pranzi, nonostante la mancanza di aumenti salariali”.
Tre elementi sono da evidenziare in questa ennesima storia di montante scontro tra il top management “ufficista” e i dipendenti “remotisti”.
1. Errore di tattica. L’ascolto e il dialogo sono fondamentali sempre e in particolare quando le posizioni sono distanti. Vista la reazione al box lunch, è molto improbabile che qualcuno abbia chiesto se fosse un’idea gradita nel contesto attuale e culturale di quell’organizzazione.
2. Errore di strategia. Legare il ritorno in ufficio alla fase di calo della pandemia senza considerare le altre dinamiche che stanno emergendo in modo eclatante, modificando il mix di preferenze con pesi nuovi su criteri che prima parevano meno importanti.
3. Errore di visione. La ragione sostanziale dello scontro in realtà non è tanto e solo il lavoro da remoto o ibrido, quanto piuttosto lo stallo delle negoziazioni in corso da tempo sui livelli retributivi, stagnanti da molti anni, nonostante la crescita profittevole del giornale.
Quanto sono distanti le posizioni? Il Times offre un aumento del 4%, i sindacati dei lavoratori chiedono l’8%, più 5% per compensare l’inflazione (totale +13%). Ovviamente in queste circostanze non aiuta aver aumentato la retribuzione dei top manager da 4,4 a 5,8 milioni di dollari per Meredith Kopit Levien, amministratore delegato, e da 2,4 a 3,6 milioni per Arthur Sulzberger Jr, presidente…
Seguendo l’esempio del New York Times, anche il Wall Street Journal ha annunciato ai dipendenti che dovranno tornare in ufficio almeno 3 giorni alla settimana, con capi redattori e manager sempre presenti. Ovviamente anche in questo caso la reazione non si è fatta attendere ed è iniziato un forte movimento di opposizione con lo stesso ragionamento, espresso dai rappresentanti sindacali in questi termini: «Il giornale ha avuto la più grande crescita di volumi e profitti della sua storia durante gli anni della pandemia, con le persone che hanno lavorato da remoto abbondantemente o esclusivamente, si sono riorganizzate la vita e si sono protette dalla pandemia e dai costi dell’inflazione, e adesso, senza una motivazione sostanziale, come un aumento retributivo, dovrebbero ritornare a lavorare come prima? Come se tutto questo non fosse successo?»
Il vero problema è che ci vuole una vera e nuova ragione per tornare in ufficio e ogni organizzazione e manager deve trovare un set di risposte convincenti, non solo cogenti.
“Nello smart working non conta il processo, ma l’obiettivo: non importa se il dipendente preferisce lavorare di notte, al mattino presto, prendersi poche o tante pause. L’importante è che porti a termine il suo compito nel migliore dei modi”, Domenico De Masi.
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