“17 anni di violenze, la vergogna e la paura di perdere mio figlio”
Una storia drammatica fatta di umiliazioni, botte, soprusi e minacce. Ce la racconta una donna di 52 anni, che vive in un centro antiviolenza: "Vorrei tornare a casa dei miei in Campania, ma voglio tutelare il rapporto con mio figlio"
Una storia di violenze, fisiche e mentali, che fa accapponare la pelle e fa riflettere. Con l’incubo continuo di perdere il proprio figlio e le lungaggini burocratiche e legislative che impediscono una soluzione rapida del problema. La raccontiamo nella Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, sperando che possa aiutare chi si trova nelle stesse condizioni e non ha la forza o il coraggio di denunciare.
La storia che abbiamo raccolto si svolge tutta a pochi passi da Varese, in uno dei bei paesi, ricchi e immersi nel verde, che circondano il capoluogo. Tra le mura della casa della donna con cui siamo entrati in contatto però non c’è stata pace né tranquillità per tanti, troppi anni. Lei, 52 anni, si trova in questo momento in un centro antiviolenza insieme al figlio di 15 anni: sono state sporte due denunce per maltrattamenti ed è in corso la causa per la separazione che dovrà stabilire l’affidamento del minore.
Tutto comincia nel 2004. Chiameremo lei e il figlio con due nomi di fantasia (Maria e Antonio) e non daremo troppi particolari per evitare di renderli riconoscibili. Maria conosce un uomo, si innamorano e tutto fila liscio per qualche anno: «Anche se ha sempre avuto un po’ di gelosia morbosa, anche quando lavoravo in Svizzera a contatto con molti colleghi maschi – ci racconta -. Abbiamo un figlio che ha 15 anni e ci siamo sposati nel 2011. Lui ha smesso di lavorare perché depresso, ha la pensione di invalidità. Quando sono rimasta incinta sono cominciati i problemi».
Qui il racconto si fa difficile, alternato alle lacrime e alla voce rotta dall’emozione: «In quel periodo aveva bisogno di una macchina, ma non aveva i soldi. Così li chiese a mia nonna, che abita al Sud, in Campania. Lei acconsentì al prestito, 3 mila euro, ma mi chiese di andarli a prendere da lei – racconta Maria -. Io ci andai, ma al mio ritorno ha cominciato ad accusarmi di averlo tradito. Io non stavo bene, non è stata una gravidanza facile, ma lui se ne è sempre fregato, invitava a casa amici e io dovevo cucinare. Una sera mi ha buttato fuori di casa, poi sono tornata. Quella è stata la prima volta».
Da lì in poi una serie di violenze, umiliazioni fisiche e verbali, mai denunciate per paura di perdere Antonio, suo figlio: «Dopo il parto, con le mie attenzione al bambino, sono cominciate le accuse di pensare solo al piccolo. Lui era geloso, morbosamente. Amava anche lui nostro figlio, ma ha cominciato a trattarlo come un adulto, con durezza eccessiva. Siccome lui non lavorava e la sua pensione non bastava, ho cominciato a lavorare nelle pulizie – spiega Maria, che mentre parla ammette che “servirebbe un diario per ricordarmele tutte, molte le ho volute cancellare dalla mia mente” -. Tra gli episodi più brutti ricordo un Capodanno, mio figlio era piccolo, avrà avuto due anni, io regalai a mio marito una bottiglia di spumante: lui l’ha bevuta tutta, era allegro, per scherzare gli ho chiesto se si fosse ubriacato; poi sono andata in bagno, ho sentito la porta spalancarsi e all’improvviso mi ha dato un pugno dritto nell’occhio, fortissimo. Sono andata alla guardia medica, mi sono dovuta inventare una storia, che il bambino mi aveva colpito mentre lo tenevo in braccio. Non l’ho denunciato e non è stata l’unica volta che non l’ho fatto».
«Un’altra volta eravamo in auto, mi ha sferrato un altro pugno, sulla tempia. Ho minacciato di denunciarlo, mi ha portato davanti alla caserma e non ce l’ho fatta. Ci ha lasciati sotto l’acqua, a me e a mio figlio, era sera tardi e siamo tornati a piedi a casa. Un’altra volta mi ha picchiata, con una mia amica presente in casa, mi ha buttato la testa nel piatto e lei non ha detto nulla, poi ho capito perché – continua -. Episodi ce ne sono stati tanti, siamo stati insieme 17 anni, il bambino è diventato un ragazzo e ha assistito a tutto: aveva paura che mi picchiasse, aveva paura per me, oltre che per lui. Ci facevamo i segnali di nascosto per avvertirci. Nell’ultimo periodo ha cominciato a bere come una spugna, era sempre più instabile. Io volevo andarmene da mia mamma in Campania, lui non mi lasciava andare, mi minacciava con il ricatto del figlio, di mandarlo in istituto e farmi togliere il bambino. Io non conoscevo la legge, avevo paura. Facevo due lavori, lui si prendeva i soldi, mi faceva andare in giro con 5 euro in tasca per non farmi scappare. Mi trattava come un ospite in casa, con umiliazioni continue»
«Il 18 maggio dello scorso anno mentre ero al lavoro mi ha chiamato mio figlio in lacrime, disperato (lui non piange mai, anche se lo ha sempre trattato male, umiliato e deriso): lo ha minacciato, lo ha insultato e gli ha detto che era meglio se avessi abortito, che tutti i nostri litigi erano per colpa sua. Ho chiamato i carabinieri a febbraio dopo un litigio quando ci ha buttato fuori di casa, ma non ho sporto denuncia nemmeno quella volta. Mi vergognavo, ma solo ora ho capito che sbagliavo – prosegue Maria -. Per fortuna ci ha pensato mio figlio. Una sera ci ha chiuso fuori di casa, i vicini che hanno sentito che bussavo mi hanno detto di andarmene, di scappare e lasciarlo per evitare che finisse male, ma io non avevo niente, mi ha fatto terra bruciata intorno anche con amici e conoscenti, ero senza soldi, senza niente, mi teneva in pugno. Quando ci ha aperto, mi ha urlato di andarmene, insultandomi, dicendo che fuori io sarebbe arrivata un’altra (la mia amica a cui confidavo tutto, un’altra ferita enorme per me e per mio figlio) con cui aveva una relazione da due anni e mezzo. Mio figlio ha registrato tutto, si è messo in mezzo e si è preso un pugno in faccia, così ha chiamato i carabinieri e ha avvertito i miei fratelli a cui io, sempre per vergogna e per non rischiare che si rovinassero la vita per me, non avevo mai detto nulla. A quel punto, anche se io tentennavo ancora, abbiamo denunciato perché Antonio mi ha convinto, ci hanno portato in caserma e cercato un centro antiviolenza, non facile da trovare perché eravamo ancora in pandemia: ci hanno portato qui alla 4 del mattino, con un sacchetto in mano e abbiamo dormito piangendo tutta la notte».
«Da un anno e mezzo è come se avessi le manette, non posso andarmene per non perdere mio figlio, ma tra la legge e la burocrazia è tutto troppo lungo e complesso, le donne non vengono tutelate abbastanza. Sono sola e disperata, vorrei andarmene dai miei, ma non posso perché c’è mio figlio e non voglio perderlo. Ho perso il matrimonio di mia figlia (avuta dal primo matrimonio), non sono potuta andare nemmeno a dare l’ultimo saluto a mia nonna. Lo scorso Natale lo abbiamo passato da soli, io e mio figlio, nemmeno a Pasqua abbiamo potuto vedere i nostri parenti, per la nostra sicurezza dicono. Intanto quell’essere (non voglio chiamarlo uomo) che ho sposato invece è libero di fare quello che vuole, non mi ha dato niente per mio figlio, lui non lo vuole più vedere – conclude Maria, amareggiata -. Adesso ci vogliono spostare in una social housing, ma è un incubo anche questa vita. Mio figlio ha 15 anni, avrebbe bisogno di una vita normale, tutto questo gli è impedito. Mi seguono due centri antiviolenza, mi hanno assegnato due avvocati, uno penale e uno per la separazione. Il sindaco e il vicesindaco del mio Comune mi hanno dato un grande mano, sono gli unici tra le istituzioni che posso ringraziare».
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