Partigiani migranti: il gallaratese Cardoletti e il lucano Miscioscia sui monti di Liguria
La storia di due partigiani che il 20 gennaio 1945 si sacrificarono nel villaggio di Ubaghetta tra i boschi della valle Arroscia, tra Imperia e Savona. Due storie accomunate anche dall'emigrazione
Nel cuore dell’inverno il sole arriva per poche ore, sulle poche case di Ubaghetta.
Chi arriva fin qua su, se supera la microscopica piazzetta, se passa sotto a un arco, se sale all’ultima casa, all’imbocco di un sentiero tra gli ulivi trova una piccola lapide in pietra bianca: ricorda Mario Miscioscia, partigiano della Sesta Divisione Garibaldi “Silvio Bonfante“, terza brigata “Ettore Bacigalupo”, ucciso il 20 gennaio 1945 (la lapide si vede sulla casa a destra, nella foto di apertura).
Miscioscia era un lucano, originario di Lavello, sul confine con la Puglia.
Nella stessa località, il giorno dopo, fu ferito gravemente anche Germano Cardoletti, che viveva a Gallarate, dove la sua famiglia si era trasferita lasciando un paese del Pavese.
Al 17 gennaio tedeschi e fascisti avevano dato avvio ad un rastrellamento ad ampio raggio per “ripulire” dalla presenza partigiana le valli tra Imperiese (zona dove la Resistenza era molto forte) e Savonese.
Quel giorno d’inverno del ’45 tre colonne di tedeschi e fascisti salirono verso il monte d’Ubaga sopra la val d’Arroscia: venivano da Borghetto, da Casanova Lerrone, da Pieve di Teco.
Il partigiano Miscioscia faceva parte della “intendenza” che recuperava e distribuiva i viveri: il 19 gennaio era andato a portare rifornimenti a un distaccamento nella zona del paese di Marmoreo, a qualche ora di cammino.
«Mentre rientrava alla base avvistò una colonna nazi-fascista che si dirigeva verso Ubaghetta: impossibilitato a sorpassare il nemico senza farsi scorgere, non esitava a lanciare una bomba a mano» annotò nel suo diario Luigi “Pantera” Massabò, vicecomandante della 6a Divisione Garibaldi Bonfante. «I partigiani ed i civili, mercé il suo sacrificio, poterono abbandonare il paese celati al nemico». A Miscioscia i fascisti proposero anche cure in cambio di informazioni sui suoi compagni, ma lui – tramandano i racconti – rifiutò, ormai in fin di vita.
La cattura di Germano Cardoletti
Sempre sul versante di Ubaga e Ubaghetta, sopra la Valle Arroscia, fu ferito anche il ventenne Germano Cardoletti, nome di battaglia “Redaval”. Garibaldini e fascisti si trovarono fronte a fronte, aprirono il fuoco gli uni contro gli altri: Cardoletti venne «colpito da una raffica di mitra» che gli spezzò il femore. Riuscì a sfuggire in un primo momento alla cattura, ma fu fatto prigioniero verso sera, su quelle balze che ora erano meno boscose.
Ubaghetta, il nucleo della chiesa, che s’incontra prima di arrivare all’ultima borgataTrasferito a valle, a Borghetto d’Arroscia, fu medicato alla bell’e meglio e poi lasciato su un po’ di paglia, con solo una coperta per proteggersi dal freddo di gennaio.
All’inizio i fascisti gli dissero che sarebbe stato trasferito all’antico ospedale di Pieve di Teco, la cittadina vicina, in mezzo ai monti: «Uno solo dei circa sessanta uomini che erano a Borghetto mostrò pietà verso di lui, un sergente maggiore del quale mi sfugge il nome» scrisse il parroco del paese. L’iniziale pietà però svanì: alla sera di lunedì 22 gennaio arrivò un «tenente coi capelli grigi» (probabilmente dei “Cacciatori dell’Appennino”, reparto speciale antipartigiano operativo tra Langhe e Liguria) che comunicò al sofferente Cardoletti la condanna a morte, che fu eseguita la mattina successiva alle 7.
Una certa retorica vuole che al momento dell’esecuzione Cardoletti abbiamo urlato “Sparate! Questa è la fine che vi faranno fare i miei compagni”, ma è difficile potesse farlo, considerato che ormai esangue, provato da tre giorni al freddo, dalle ferite e forse anche dalle percosse.
Poco prima il prete del paese, don Casa, raccolse l’ultimo soffio di vita: il ventenne riuscì appena a sussurrare il nome del padre e della madre. Nel Dopoguerra fu messa una lapide davanti al municipio di Borghetto, nel luogo dove trascorse le sue ultime notti di vita: il cognome riporta la versione imperfetta del cognome raccolta dal prete in quei giorni, Condoredi invece di Cardoletti.
Germano, il mandolino e il nome del suo paese
Finita la guerra, a Germano Cardoletti la città di Gallarate ha dedicato una piccola piazzetta un po’ in pendenza, all’ingresso del quartiere collinare di Crenna, anche se oggi la sua figura è poco ricordata.
Dalla scheda di riconoscimento sappiamo che Germano era un operaio con la quinta elementare, che viveva nel quartiere di Cajello, in via Castello (oggi via Premezzo 4b) con i genitori, una sorella operaia, un fratello invalido – “sciancato” – e una sorella ancora scolara.
La famiglia Cardoletti non era originaria della città, ci si era trasferita probabilmente per lavoro: lo stesso Germano era nato a Redavalle, nell’Oltrepo Pavese, e a quel luogo era in qualche modo era legato visto che aveva scelto proprio “Redaval” come nome di battaglia, come attestano i documenti e i racconti (spesso nelle brigate partigiane neppure i compagni di lotta conoscevano i nomi veri).
«Suonava il mandolino» scrisse un suo compagno, Boris. «Lo rivedo ancora vicino al fuoco quando nelle notti di freddo amava accompagnare il vento che fuori fischiava, lo rivedo attaccarsi quasi con disperazione al suo mandolino. E suonava sino a stordirsi».
Emigranti e partigiani
Una particolarità unisce i due partigiani “Redaval” e Miscioscia, che hanno incontrato il loro destino sui monti di Ubaghetta: entrambi erano “partigiani migranti”, in modo diverso.
Del lombardo abbiamo detto.
Il lucano Miscioscia invece era nato a Lavello il 3 novembre 1922: ultimo di sette fratelli e sorelle, era figlio di un socialista: già a diciassette anni emigrò a Milano, «la grande capitale lombarda lo accoglie nella sua vita fattiva e industriosa», ricorda un documento. La guerra d’aggressione scatenata da Benito Mussolini però venne a bussare alla sua porta: chiamato alle armi, finì in un’unità di fanteria in Liguria, dove – come si dice – lo sorprese l’8 settembre, l’armistizio (i tedeschi rastrellavano città, stazioni, caserme per far prigionieri i soldati del Regio Esercito italiano. Anche Mario Miscioscia fece parte di quelli che si nascosero sui monti (facile in Liguria, dove le montagne sono subito dietro la costa) ed entrarono poi nelle forze partigiane.
A Miscioscia è stata dedicata la sezione Anpi di Lavello.
Il suo non è l’unico caso di militante nella Resistenza in questo paese della Basilicata: sono ben quindici i cittadini di Lavello che militarono nella Resistenza, i più come partigiani sui monti, qualcuno come “sappista” (operaio in fabbrica, in armi solo per azioni clandestine o al momento dell’insurrezione), qualcun altro come collaboratore. Tra loro c’era anche un carabiniere, ma i più si trovavano al Nord come emigranti per lavoro o come soldati.
Come ogni anno, il 20 gennaio la comunità di Lavello ricorda Miscioscia davanti alla tomba, nel cimitero del paese che affaccia sul Tavoliere delle Puglie.
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