Tre lezioni che ho imparato da Angelo Agostini
La testimonianza di un allievo del grande esperto dei media che si è spento oggi all'età di 55 anni
Quando incontrai per la prima volta Angelo Agostini ero appena arrivato a Milano. Gli chiesi, ingenuo aspirante cronista, il miglior modo per conoscere la città. Lui mi sorrise e disse semplicemente: "Sii curioso". In quella semplice risposta, che in un primo momento mi deluse, c’era il segreto di una professione.
Il giornalismo, fu questa la prima lezione, non è solo un mestiere. È una vocazione, una passione, che ha bisogno di essere alimentata da un elemento tanto banale quanto raro, la curiosità.
Qualche settimana dopo mi commissionò il mio primo lavoro, una ricerca sul social housing a Reggio Emilia. Quelle che un tempo si chiamavano semplicemente case popolari, nella città emiliana erano diventate un progetto affascinante di edilizia convenzionata e rivolta a una comunità multietnica e dialogante. In sintesi, l’esempio di un futuro possibile. L’argomento mi coinvolse e cercai di svolgerlo al meglio. In breve entrai in contatto con una realtà che avevo solo sfiorato e che veniva trattata solo marginalmente dai mezzi d’informazione.
Fu questa la seconda lezione: scrivere anche di ciò di cui non si scrive.
La terza lezione arrivò come un treno in corsa, travolgendo le mie ambizioni e i miei sogni di ingenuo, aspirante giornalista.
Angelo Agostini aveva nasato l’aria che tirava nel mondo dell’informazione. Blocco delle assunzioni, contratti di collaborazione da fame, frotte di giornalisti disoccupati in attesa di un posto che non sarebbe arrivato.
Decise allora di metterci attorno a un tavolo e di lanciarci una sfida. "Provate a immaginare un prodotto editoriale innovativo – disse con un’aria tra il serio e lo scherzoso – e riempitelo di contenuti. Fatene un’attività redditizia e moderna. Utilizzate gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione e portatemi un progetto credibile". Era solo un gioco, ma a noi quindici, quelli che sarebbero stati i suoi ultimi allievi, l’idea di improvvisarci manager fece storcere il naso. Dopotutto ci immaginavamo reporter d’assalto, non editori, né tantomeno business men. Nonostante le alzate di spalle, gli sbuffi annoiati e le critiche, sempre bisbigliate mai gridate, portammo a termine il progetto. Si chiamava: "MI app". Un giornale iper-locale e aperto ai contributi dei lettori che, con una semplice applicazione per smartphone e tablet potessero aggiungere contributi in diretta e senza troppi filtri. Oggi, se ripenso a quei giorni, mi vien da sorridere per tutte le volte che ci siamo lamentati. In realtà, senza accorgercene avevamo creato qualcosa dal nulla.
Eravamo stati in grado di metterci insieme e di realizzare qualcosa di inaspettato. Ad essere sorprendente non era il risultato finale, eravamo noi che nel bene e nel male, avevamo costruito qualcosa insieme. A ripensarci oggi le tre lezioni di Angelo Agostini non mi hanno insegnato qualcosa sul giornalismo, ma sulla vita. E forse è questa la migliore qualità di un maestro.
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