Pakistani, i nuovi schiavi invisibili
Lavorano nei ristoranti e nei bar per pochi euro al mese
Se ne stanno appartati, in silenzio. Se gli fai una domanda risponde uno per tutti. Sgranano gli occhi appena li guardi, in cerca di un gesto familiare, di una rassicurazione. Appena avvertono che l’argomento li riguarda fanno un cenno d’intesa, con discrezione. Sono uomini che hanno fatto l’abitudine alla paura, ammesso che alla paura ci si possa abituare. Si affidano all’istinto, non mollano mai la concentrazione su quello che accade intorno a loro e quando capiscono che si possono fidare ti inondano con il loro cumulo d’angoscia. Hanno saputo per caso dell’assemblea dell’Anolf da un volantino trovato in stazione e si sono precipitati nel salone della cooperativa di Biumo.
Pasha, Tare, Farid, Ghani, Asef, Ashrf vivono in provincia di Varese da circa due anni, si sono conosciuti qui, arrivati dalla stessa terra per strade diverse. Sono tutti pakistani, vengono dal Panjub meridionale, hanno tra i 25 e i 30 anni. Del loro permesso di soggiorno non sanno più nulla. Non si sentono clandestini, ma piuttosto invisibili. Lavorano tutti i maledetti giorni nelle cucine di qualche ristorante o nel retro di qualche bar affollato. Lavano bicchieri, scrostano piatti, cucinano per gli italiani. Sono una presenza necessaria all’economia, eppure nessuno li vede.
Sono dignitosi, di un’eleganza sofferta, estremo tentativo di camuffare la disperazione più profonda. Parlano un inglese quasi perfetto – senza rosicchiare le parole, come di solito fanno i pakistani – e hanno tutti un buon grado di istruzione. Pasha ha ventinove anni, una laurea in economia e un master in businnes administration. I modi raffinati e le mani curate, rivelano un’origine non certo di basso livello. Tutti lo ascoltano mentre parla. «Lavoro dieci, a volte dodici ore al giorno e guadagno 400 euro al mese, quando il padrone è buono. Non ho una casa, ma un posto letto che costa 250 euro al mese. In Pakistan avevo un lavoro ma non bastava per mantenere la mia famiglia per questo sono venuto in Italia. Mi piacerebbe lavorare rispettando le regole, pagare le tasse e poter vivere come tutti gli uomini normali».
Sono tutti nelle stesse condizioni. C’è chi guadagna ancora meno e chi, come Asharf, è stato truffato dal proprio datore di lavoro. «Ho lavorato. Per tre mesi ho fatto il lavabicchieri m a il mio padrone non mi ha mai pagato. Scrivilo, per favore, si chiama Antonio».
Alla fine dell’assemblea scendono al bar a bere un tè. Non si dividono mai, sembrano un corpo unico. E quando decidono di andarsene si alzano tutti insieme per sparire nelle prime ombre della sera e ritornare invisibili come prima del loro arrivo.
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