I destini incrociati di Papa e Patriarca
Due sacerdoti di casa nostra si conoscono in seminario, si incontrano da missionari in Africa e ora vivono nella stessa casa: sono i testimoni di una vita ricca di coincidenze e piena di umanità
Esistenze che si incrociano in continuazione, per caso, e che dopo giri lunghissimi per il mondo si ritrovano. Sono casualità, quelle che fanno incontrare una prima volta in seminario due giovanissimi ragazzi, una seconda in un paese lontano, da missionari, e una terza, a dividere lo stesso tetto?
Sembra di no, che non siano coincidenze tutte queste, a partire dal cognome di questi due sacerdoti di frontiera: uno si chiama Papa, ma è un parroco; l’altro fa di cognome Patriarca ed è vescovo.
Questa è la storia di Mario Papa ed Emilio patriarca, e per non fare confusione sarà bene partire dall’inizio (nella foto in alto, la missione di Kariba, Zambia).
I PRATI VERDI – «Quarto Oggiaro nel 1960 era tutta qui: una chiesetta pericolante, qualche baracca, un pratone ». Comincia così il racconto della prima assegnazione di don Mario Papa (foto sopra), varesino, classe 1935, ordinato prete negli anni del boom di una Milano ancora da farsi dopo la guerra, la città delle opportunità cresciute un giorno dopo l’altro nelle schiscette portate sul lavoro e cucinate sui fornelli delle case di ringhiera. Don Mario affronta il mondo con la calma che traspare ancora oggi dal suo sguardo calmo, da ascoltatore, di chi lavora sulla lunga distanza. Poi sarà parroco nella Brianza di Osnago, poi ancora nel decanato di Porlezza a Carlazzo, Alto Lario, terra di poesia e suggestioni, Fogazzaro; Hesse.
Passano gli anni. Siamo alla fine dei terribili ‘70, e si presenta la svolta. «Il cardinale Giovanni Colombo mi chiamò per incaricarmi di prendere servizio in una missione. Dopo un breve periodo di permanenza in Inghilterra arrivai in Africa nel 1980. Il mio compito era quello di andare in Zambia per sostituire un missionario». «Vi rimasi fino al 1994».
Quel missionario si chiamava don Emilio Patriarca.
FIDEI DONUM – Una grande accelerazione nell’esperienza missionaria in Italia e nel mondo venne segnata nel 1957 quando Pio XII scrisse un’enciclica per invitare la Chiesa occidentale all’impegno missionario: ogni diocesi “prestava” un sacerdote per l’opera di evangelizzazione della durata variabile dai 5 ai 15 anni. «E così diventai un prete “Fidei Donum” (così cominciava la prima frase del testo in latino che dava il nome all’enciclica “dono della fede”, nda), quello che mi sentivo di fare fin dai tempi del seminario, a Venegono».
A raccontare è ora Emilio Patriarca (nella foto sopra), monsignor Emilio Patriarca, ordinato Vescovo nel 1999 da Papa Wojtyla.
«Studiai da ragioniere al Daverio, qui a Varese – racconta il sacerdote, nato però a Como nel 1937 – e trovai la mia strada nell’ambito degli scout: mi sentivo di voler fare il missionario. Così entrai in seminario. E lì conobbi Mario Papa, che era un paio d’anni più avanti di me: si giocava a pallone insieme. Ricordo persino di una partita a calcio dove cadendo mi feci molto male, mi ruppi addirittura una gamba».
Il tempo passa e non cancella la voglia di Patriarca di voler fare il missionario. Venne ordinato prete diocesano nel 1962. E cinque anni più tardi, trentenne, partì per Lusitu, lungo il fiume Zambesi. Zona di prima evangelizzazione, tribù Tonga. Una sfida difficile, che don Patriarca portò avanti fino al 1979.
LE STAFFETTE – Qui avviene il cambio della guardia fra i due sacerdoti: Patriarca rientra in Italia e viene assegnato a San Giuliano Milanese; Papa fa le valigie per l’Africa. Nel 1994 però, un’altra partenza: don Patriarca viene assegnato nuovamente in missione a Choma, sempre in Zambia. E qui diventerà vescovo. «Feci domanda di tornare in Africa dopo la perdita di mio padre. Il mio compito era il coadiutore – racconta Patriarca – . Il parroco coadiutore aiuta il sacerdote di un luogo. In particolare, il parroco locale era uno dei bambini che battezzai durante la mia prima missione. Purtroppo nel 1998 il parroco morì, e l’anno dopo perse la vita anche il vescovo. Così Giovanni Paolo II mi nominò vescovo della diocesi di Monze, alla quale ancora oggi sono molto legato. Rientrai in Italia nel 2014»
SOTTO LO STESSO TETTO – Alla fine, dopo l’esperienza in Africa, giunge il momento di rallentare, di “tornare a baita”, per dirla alla Rigoni Stern: la missione è la prima linea dei preti. E qui avviene un’altra coincidenza: don Mario, dopo il rientro dalla missione e a metà degli anni ‘90 si stabilisce a Oltrona al Lago, dove diviene parroco e dove tuttora fa parte della comunità pastorale composta dall’accorpamento di più parrocchie: Gavirate, Oltrona, Comerio e Voltorre.
Due anni fa, al rientro in Italia di monsignor Patriarca, la chiesa di Varese propose al vescovo una soluzione abitativa nella canonica di Comerio. E chi trovò qui? Don Papa, naturalmente, il giovane calciatore del seminario di Venegono, quel missionario a cui diede la benedizione e oggi il sacerdote con cui condivide l’abitazione a Comerio, in via Chiesa.
I due parroci sono amati dalla comunità. Monsignor Patriarca rimane legato a doppia trama coi suoi fedeli di Monze a cui destina progetti di cooperazione e aiuti. «Ma per tutti qui sono don Emilio, do una mano nelle visite ai malati, dico Messa, insomma quel che fa qualunque parroco».
Molto legata al territorio anche l’attività di don Papa. Cosa chiedono i suoi fedeli? E quanto serve l’esperienza missionaria per rispondere? «Chiedono ascolto – racconta don Mario – . Chiedono presenza. La presenza di noi parroci. La possibilità di incontro. In questo l’opera missionaria ti allarga la mentalità, ti schiarisce l’orizzonte e ti rende consapevole ogni momento che non esiste solo il tuo campanile. Non esiste solo il tuo vicino, ma devi essere tu vicino a tutti, anche a chi arriva da lontano. Anche a chi viene disprezzato: ti rendi conto che l’altro è uguale a te».
L’incontro coi due sacerdoti avviene nella cucina al primo piano dell’abitazione. Ci sono un tavolo, quattro sedie, una vecchia radio sulla credenza, il crocifisso e la foto della Missione, in Africa. Dalle ante aperte del mobile sopra al lavello si intravvedono dei piatti (foto sopra).
Chi cucina? «Veniamo aiutati da una signora che ci prepara il pranzo tutti i giorni. La sera invece il cuoco è lui: Papa».
E i piatti chi li lava? Un sorriso: «I piatti, quelli toccano sempre al Vescovo».
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