L’app si è mangiata la mia scrivania

L'organizzazione dello spazio in ufficio è stata messa in discussione da tempo. L'ufficio del futuro è un hub che deve favorire la collaborazione creativa, rafforzare il senso di identità e la creazione di senso. Un sistema complementare e integrato col lavoro da remoto

ufficio computer

Cosa fare quando l’app dice che tutte le postazioni in ufficio sono occupate? Questo possibile scenario disturba il sonno di chi deve decidere il livello di densità degli spazi di ufficio. Il ratio, come si dice in gergo e si legge “rescio”, tra postazioni e popolazione titolata ad usufruirne è una delle variabili chiave della progettazione degli spazi. Per anni non è stato un tema rilevante per la maggior parte delle organizzazioni perché l’equivalenza 1 postazione = 1 testa è sempre stata vera. Infatti nel contratto di impiego avere un posto di lavoro ha sempre voluto dire anche avere un posto, di solito molto ben identificato, dove sedersi e lavorare. Negli anni alcune organizzazioni (società di consulenza e tecnologiche prima, poi banche e poi altri settori) hanno iniziato a mettere in discussione questo paradigma, senza che questo diventasse però la normalità. Ricordo il mal di pancia in una grande organizzazione che dopo infiniti studi sull’opportunità di scendere a un ratio di 90% (9 postazioni per 10 persone), decise di continuare con il 100%: il gioco non valeva la candela.

Con la pandemia è cambiato tutto: non bastava il 100% per garantire il distanziamento e siamo passati al 200% e anche oltre. Una persona ogni due scrivanie, o 3 o anche 4 vuote. Massima inefficienza per necessaria sicurezza.

Ora però il vento sta cambiando, e le imprese assetate di efficienza sono alla ricerca continua di opportunità, compreso ovviamente il cosiddetto smart working, che poi così smart non è, se si tratta solo di lavoro a domicilio, o meglio ai domiciliari, visto che non è una scelta. Pensando alla nuova normalità, passata la pandemia, ci sarà la possibilità di aumentare la densità abitativa degli uffici; questo vorrà dire per molte imprese condividere le scrivanie, utilizzando sistemi di prenotazione che permettano di garantire di non dover lavorare dall’area break, dai salottini della reception o dalle panche del parco, per chi ce l’ha. In questi casi gli algoritmi impazziscono per calcolare quante postazioni servano davvero. In teoria sarebbe semplice, se fossimo dei robot. Due giorni di lavoro in ufficio, 3 da remoto, significa 60% delle postazioni libere. In soldoni, sempre in teoria, se hai 5 piani, ne potresti liberare 3, compresi posti auto, posti in mensa, pulizie, utenze, ecc.

In pratica, per fortuna, la vita rende la matematica molto più interessante. Bisogna calcolare il fattore umano, che è una variabile tutta speciale e volubile almeno quanto il tempo. C’è chi di lavorare da casa 3 giorni alla settimana non ne vuole sapere, tanto meno di farlo in modo regolare e programmato, chi deve essere in ufficio per imprescindibili esigenze di servizio, come prendere il caffè 8 volte al giorno gratis, barzellette e gossip compresi, chi vive da solo o troppo poco da solo in casa sua, e non vede l’ora di andare in ufficio per stare con qualcuno o da solo veramente e chi appartiene al 9% di aziende che obbligherà chi non si vaccina a lavorare da casa (v. ricerca AIDP 2021). Oltre a questi casi estremi e realistici, ci sono tutte le oggettive necessità strettamente di lavoro che richiedono una presenza in ufficio fluida e irregolare, non irreggimentabile in formule tecnicamente ineccepibili e praticamente inutili.

Quando il focus del lavoro è l’efficienza collaborativa (la velocità con cui un gruppo risolve un problema), la prossimità fisica aumenta significativamente la produttività perché la sua benzina è la comunicazione. E la tecnologia di comunicazione più veloce, a basso costo e a più alta banda di connessione – ancora per il momento– è l’ufficio. Ogni vero innovatore sa che le idee vengono anche sotto la doccia, che di solito uno si fa a casa sua e da solo, ma fioriscono e danno frutto attraverso la contaminazione delle critiche costruttive che possono avvenire solo in presenza. Intervistando a questo proposito uno scienziato e ricercatore recentemente ho raccolto questa testimonianza: “Quando si è in presenza si possono dire cose stupide, scarabocchiare su un tovagliolo e passarlo ad altri durante un pranzo, provare a vedere che effetto fa un’idea assurda come andare su Marte in bicicletta con le persone di cui ci fidiamo. Da questo giocare insieme con le idee, nascono combinazioni proibite e proibitive per i collegamenti asettici di Zoom. Solo così nascono innovazioni davvero rivoluzionarie, il resto è copia e incolla, che neanche più i cinesi praticano”. Vale per la ricerca, per il marketing, e anche per l’amministrazione che vuole creare valore, altrimenti c’è l’outsourcing.

Le aziende che stanno ridisegnando i nuovi modi di lavorare lo hanno capito bene: l’ufficio del futuro è uno o più hub progettati per favorire la collaborazione creativa, rafforzare il senso di identità e la creazione di senso. Un sistema complementare e integrato col lavoro da remoto. Questo non significa che non si possa spingere sulla leva dell’efficienza degli spazi e ci sono molti modi per farlo riducendo il rischio di alienare le persone che non trovano spazio.

Innanzitutto, bisogna spostare il fulcro della conversazione e valutare bene l’assetto complessivo. Quando si parla di smart working si tende ad essere binari: lavoro da casa o lavoro in ufficio. Invece, probabilmente la maggior parte delle organizzazioni evolverà verso un mix di 3 gruppi. Persone che possono, per ruolo, e preferiscono, per condizioni personali, lavorare quasi esclusivamente da remoto. Persone che per ruolo e/o scelta lavorano quasi esclusivamente in ufficio. Infine, un gruppo che si situa a metà strada, lavorando da remoto e in ufficio, in base alle preferenze personali, al tipo di lavoro che stanno svolgendo in un determinato giorno o di altri fattori esterni. Secondo Gartner il primo gruppo potrebbe essere circa il 10%, il secondo il 50% e il terzo circa il 30%. Ognuno faccia i suoi calcoli e simulazioni.

Dal punto di vista pratico, per prevenire il problema dell’intasamento, è bene indirizzare le persone verso delle aree di riferimento, non forzate, in base alla funzione o team di lavoro; meglio ancora formare i collaboratori ad esserlo, adottando tutte quelle buone abitudini che permettano di condividere le risorse in modo rispettoso ed efficiente. Non serve prenotare una postazione se prevedo di essere in riunione per la maggior parte della giornata in sale apposite; meglio non favorire la prenotazione con larghissimo anticipo perché le priorità cambiano e i piani si aggiustano su base settimanale; bene offrire ampi spazi di supporto non prenotabili, né colonizzati dai cosiddetti “esterni”, in azienda da anni, come soluzione alternativa per gestire i picchi di richiesta; ottimo dare il buon esempio da parte dei capi che si comportano come tutti gli altri, senza privilegi ufficiali o ufficiosi. Infine, un buon sistema di gestione degli spazi ha un grado di ri-convertibilità intrinseca, frutto di una progettazione e di una scelta di arredi che permetta di rimodulare le allocazioni e le prossimità per rispondere a basso costo alle mutevoli esigenze che nel tempo si manifestano, per team di progetto, per integrazioni, per vincoli normativi e così via. “Uno spazio adattivo, perché l’app serve per l’ordinario, ma l’algoritmo non favorisce lo straordinario”, come dice la giornalista Elisabetta Peracino di Methodos.

Data questa realtà ibrida, le organizzazioni devono assicurarsi di creare un’esperienza senza soluzione di continuità per i propri lavoratori che consenta loro di oscillare fluidamente tra remoto e presenza, senza che l’esperienza venga vissuta come insoddisfacente o incoerente e senza impattare negativamente le diversità e le opportunità di avanzamento. Per le aziende, bene dunque definire le nuove policy di smart working evitando il rischio di confinarsi in spazi iper-efficienti basati solo sul concetto di condivisione delle scrivanie prenotate. Meglio trasformare i metri quadri liberati in nuove aree di creazione di valore, per sé e per le proprie comunità e stakeholder: clienti, università, partner, start-up.
Lo spazio disse al tempo: Voglio di più, e fu l’universo”, Manuel Mariani.

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Pubblicato il 20 Marzo 2021
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