Il conte Domenico, che fece grande l’Agusta e la MV

Cinquant'anni fa scompariva il "re" della fabbrica Agusta, una vita tra elicotteri e moto. Una storia aziendale esemplare di quella attitudine italiana a fare delle debolezze la base del successo

Generica 2020

Un uomo di innovazione, pronto a reinventare la sua fabbrica due volte, dentro ai turbini della storia: moriva 50 anni fa, il 2 febbraio 1971, Domenico Agusta, il patron della nota azienda ancora oggi attiva  – come Leonardo – nella produzione di elicotteri. Carattere non sempre facile, ma riconosciuto da tutti per la sua capacità di sperimentare (nella foto, con Larry Bell e il primo elicottero Ab47; foto Museo Agusta).

«Il signor Domenico» la passione per il volo l’aveva nel sangue, essendo figlio di Giovanni Agusta: iniziatore dell’azienda sì, ma anche tra i primissimi aviatori italiani, impegnato fin dalla guerra italo-turca, in cui per la prima volta si attuò un bombardamento dal cielo. E fu seguendo le orme paterne che Domenico entrò in servizio nella neonata Regia Aeronautica (durante la Grande Guerra gli aerei dipendevano ancora dall’esercito) e poi prese le redini dell’azienda alla improvvisa morte del padre, quando la Agusta aveva già messo radici nella zona della Malpensa, in collegamento con le altre aziende aeronautiche della “provincia con le ali”.

Nel 1945 l’Italia uscì con le ossa rotte dalla Seconda Guerra Mondiale: migliaia di morti, le città distrutte, un Paese sconfitto, che si era riscattato solo in parte con la Resistenza dei partigiani e dei militari cobelligeranti. La neonata Repubblica perse cento Comuni a beneficio della Jugoslavia e uno (più pezzi di altri) a favore della Francia, perse tutte le colonie e quel Dodecaneso per cui aveva combattuto anche Giovanni Agusta. Ma poco si ricordano invece i limiti imposti alle forze armate e – soprattutto – all’industria militare e aeronautica italiana.

Se la Macchi di Varese si mise persino a fare treni,  in quel frangente che Domenico Agusta divenne campione di innovazione convertendo la propria azienda alla produzione motociclistica (con la nascita dell’Mv Agusta nel 1945) e quella elicotteristica, mercato nuovissimo che vide poi la fabbrica di Cascina Costa imporsi come un grande attore a livello internazionale.

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Con i piloti MV Agusta; foto Museo Agusta

Lo racconta Leone Concato, autore dell’Ala rotante, in un passaggio del numero unico del 1971 dedicato proprio alla memoria del Conte: «Domenico Agusta ebbe l’intelligenza e l’umiltà – due virtù che per essere vere hanno bisogno l’una dell’altra – di rimettersi a scuola, vent’anni orsono (1945-50, ndr), lui e tutti i suoi tecnici. Ma con il puntiglio e l’orgoglio di imparare tutto, anche le cose che sarebbe stato più comodo ed estremamente più conveniente procurarsi altrove. Da questa sua testarda e incessante escalation, ovviamente concepita e attuata per tempi lunghi dovevano scaturire, come infatti è avvenuto, due importanti risultati: una completa conoscenza delle tecnologie riferite ai velivoli ad ala rotante e una completa, aggiornata e autonoma attrezzatura per applicare tali tecnologie, sia nel campo della sperimentazione quanto nel campo della produzione. Condizioni entrambi indispensabili per l’obiettivo finale: ossia per acquisire la capacità, non solo di progettare, costruire e sperimentare nuove macchine, ma anche di farle accettare sul mercato mondiale».

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 foto Museo Agusta

L’omaggio di Concato del 1971 ricorda anche il clima particolare della fabbrica di Cascina Costa, che viene rievocato oggi anche da chi – dopo anni di lavoro – ancora salvaguarda quella storia con l’esperienza del Museo Agusta. La fabbrica di allora era un luogo «in cui non c’erano dirigenti “targati”», ci racconta un ex dipendente Agusta. «Nei punti chiave della azienda c’erano persone di sua massima fiducia, a cui dava indicazioni e che gli dovevano riferire direttamente. Questo voleva dire che si riferiva la sera, dopo l’orario di lavoro».

Gli orari di lavoro estesissimi sono un tratto comune che emerge dalla memoria di chi ha avuto a che fare con Domenico Agusta, fosse «il signor Domenico» (come veniva chiamato in azienda) o «il signor Conte» (come lo chiamavano nel mondo delle corse, che frequentava con la MV Agusta). In una fabbrica che viveva in simbiosi con il territorio circostante, nelle case di Busto Arsizio e Gallarate potevano arrivare telefonate improvvise, fosse per rivedere un progetto o per rifare di punto in bianco gli allestimenti dello stand Agusta per la Fiera Campionaria, il Salone del Ciclo e Motociclo o il salone aeronautico di Parigi (in Agusta, allora, si faceva tutto in casa, come ci raccontava qualche anno fa un disegnatore).

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Sulla pista di Monza; foto Museo Agusta

Persino il pilota-prodigio Giacomo Agostini, si dice, fu lasciato alla porta per qualche ora, fino a notte fonde, davanti all’ufficio del conte. Quando se ne stava andando – ormai convinto che quell’appuntamento fosse saltato – fu richiamato: fu preso alla MV Agusta e regalò la stagione di maggior successo alla casa di Verghera-Cascina Costa, sui circuiti di tutto il mondo (con MV Agostini ha vinto tredici titoli iridati, diciotto campionati italiani e dieci Tourist Trophy).

Carattere forte e a tratti appariscente (ancora si conserva la sua transatlantica Cadillac De Ville) , già poco dopo la scomparsa, veniva ricordato con franchezza dai suoi stretti collaboratori: «Di fronte a certi suoi ordini – scriveva ancora Concato – ci si poteva, magari, rodere il fegato – come di fatto spesso accadeva – per finire poi completamente disarmati dinanzi all’esempio della sua azione infaticabile».

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 foto Museo Agusta

A cinque giorni dal malore, Domenico Agusta chiuse gli occhi nella sua casa milanese, in una di quelle piazzette riservate dove abita la borghesia milanese. La sua azienda si era fatta grande e al momento della sua morte da pochi anni aveva inaugurato – dopo quella con la Bell – anche la collaborazione con Sikorsky, a fine Novanta avrebbe poi assorbito l’inglese Westland. Una storia esemplare (nel senso di singolo esempio e di esempio emergente) di quella attitudine italiana a fare delle debolezze – come i limiti imposti alla fine della Seconda Guerra Mondiale – la base del successo.  

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 02 Febbraio 2021
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