La scelta di Berté

È da appena quattro mesi sotto le armi, ma il giovane soldato Enrico Berté non sa che la sera dell'8 settembre 1943 ha un appuntamento con la storia

La sera dell’8 settembre 1943, Enrico Berté ha un appuntamento importante, di quelli che cambiano la vita alle persone. Nella caserma di Bressanone ad attendere le reclute del reparto di artiglieria alpina, da appena quattro mesi sotto le armi, insieme ad un bel tramonto di fine estate, c’è la storia. Qualche ora prima dell’arrivo di quel contingente è stato infatti decretato l’armistizio e così gli alleati di un tempo diventano i nuovi nemici. I figli del Terzo Reich si adattano alla nuova situazione e circondano la caserma con i carri armati. Le giovani reclute italiane, tra cui anche il diciannovenne Berté, rifiutano di arrendersi e, nonostante la minaccia delle mitragliatrici, tentano la fuga. L’area è interamente presidiata dai soldati tedeschi, che sparano contro qualunque cosa si muova. «Eravamo nascosti dietro un muro, vicino ad una scuderia e siamo rimasti lì per circa due ore. Davanti a me c’era uno spiazzo, solo venti metri mi dividevano dagli altri commilitoni di Milano, che erano riusciti a passare. Quando ho tentato di attraversare, sono stato bloccato da un sottufficiale della Wermacht, che mi ha puntato la pistola alla schiena».
(sopra: Enrico Berté)
Il gruppo di soldati italiani viene fatto prigioniero e rinchiuso nella caserma per tre giorni. Per loro si prospetta una scelta: la libertà in cambio della collaborazione, oppure la deportazione nei campi di concentramento. La libertà è racchiusa in una firma. Una semplice dichiarazione da firmare, che lui conserva ancora oggi, intonsa come la sua dignità. Berté rifiuta quel compromesso e il 12 settembre si ritrova alla stazione di Bressanone, caricato con altri militari sulle tradotte, carri bestiame chiusi con il filo spinato e con piccole feritoie per far passare l’aria.
Il viaggio dura tre giorni, con tappa prima a Colmar e poi a Mannheim, dove rimane tre mesi, il tempo di fare un incontro straordinario. «Ricordo che dormivamo alla Luzemburg Schul . I bombardamenti facevano tremare i muri di tamponamento e i vetri. Il lager furher entrò, chiedendoci se qualcuno voleva uscire a dare una mano alla popolazione. In quel momento si rivela se uno è cristiano o non lo è, e così mi offrii. Mi precedette un uomo sanguigno, un po’ più grande di noi, molto coraggioso, che poi è diventato famoso, Giovannino Guareschi. Era l’unico che resisteva ai soprusi che facevano i soldati tedeschi, appellandosi sempre con energia alla Croce Rossa internazionale».
Comunicare con le famiglie e i parenti in Italia è difficile, la condizione di deportato e la conseguente censura impediscono il passaggio di informazioni, ma Berté escogita un trucco. «Io avevo un legame molto forte con mia sorella che era espertissima di rebus e anagrammi. Poiché non potevo dire ai miei genitori dove mi trovavo, in una missiva ho fatto dei segni, quasi impercettibili, sotto alcune lettere che, se unite, davano Mannheim. In questo modo la tenevo sempre al corrente dei miei spostamenti».
Enrico Berté annota tutto, cerca di conservare la memoria e, nonostante la condizione durissima, non si separa mai dalle sue stellette di militare, nemmeno in cambio del cibo. Continua a rifiutare di collaborare con i nazisti e per punizione, insieme ad altri militari italiani, viene assegnato definitivamente ad un campo di lavori forzati. L’arrivo a Schandelah*, meta definitiva, segna la svolta. È il lager, l’inferno in terra, dove la sensazione di non ritorno diventa subito certezza quotidiana. Anche se i militari vengono tenuti separati fisicamente dal campo, vivono tutte le brutture di quella condizione disumana, a volte direttamente a volte di riflesso.
«Ricordo l’ora dell’appello era una delle torture più crudeli. Tre o quattro volte al giorno, gente che non mangiava da settimane lasciata immobile per ore sotto la neve, al gelo. Le SS contavano con un ghigno satanico, c’era in loro la volontà di far soffrire. Una tortura finissima: ogni tonfo che si sentiva, era un uomo che se andava, per esaurimento totale, come lo spegnersi di una candela».
Il campo di Schandelah però un contatto con la normalità ce l’ha, ma niente scuote i civili che vi entrano per lavorare. «C’erano impiegati e donne del paese vicino che entravano nel campo al mattino, poi alla sera con la loro bicicletta se ne tornavano a casa. Ogni tanto riuscivo ad andare in mensa per fare dei lavori di manovalanza. Dai finestroni, mentre i soldati e i civili mangiavano tranquillamente, si vedevano scene di ordinaria follia, con le SS e i kapo che si accanivano sui prigionieri. Le donne SS a volte erano più crudeli dei colleghi maschi. Una mattina ho assistito ad una scena che non potrò mai dimenticare. Un deportato politico, che aveva fame, si era avvicinato ai secchi dei rifiuti per vedere se c’era qualcosa di commestibile. Fu visto da una SS, che non aveva più di sedici anni, la quale senza esitare gli scagliò contro il suo cane pastore tedesco. La bestia ha azzannato alla gola il poveretto, fino ad ucciderlo. L’ho visto con questi occhi. Una scena raccapricciante, uno choc».

Enrico Berté è credente. Dice che la fede in Dio ti aiuta a sopravvivere, persino laddove Dio sembra essersi smarrito. Si inventa una preghiera che dice tutti i giorni, che lo aiuta a non sentirsi semplicemente il numero 66655. «Credere era importante, perché significava non smarrirsi in quell’atrocità e ci rendeva in un certo senso superiori ai nostri carcerieri. Ricordo un monsignore polacco, che, prima di essere portato fuori dal campo per essere finito, ci ha riunito intorno a lui e ci ha fatto una predica meravigliosa, con serenità e dolcezza, dicendo quello che aveva detto anche Anna Frank: nonostante tutto io credo nella bontà dell’uomo».
Al momento della liberazione, nell’aprile del ’45, Berté non si trova dentro il campo, ma in un capannone con altri prigionieri, nei pressi del comando di polizia del paese. La libertà è nell’aria, i tedeschi smantellano tutto, cercando di lasciar meno tracce possibili dei loro orrori. I prigionieri di Schandelah sono allo sbando. Le notizie che circolano sono confuse, nonostante in lontananza si sentono nitidi gli spari delle divisioni corazzate alleate. «Quando uno non ha più il carceriere, gli manca anche il minimo di sopravvivenza, specialmente nella nostra situazione. Molti al momento della liberazione si trovarono in queste condizioni, cioè senza nemmeno quella piccola fetta di pane di segatura di legno. Allora è scoppiato il caos. Abbiamo assaltato il silos dei viveri del campo. Davanti a noi c’era un tedesco con la mitragliatrice, che aveva l’ordine di difendere la postazione ad ogni costo. La fame era il propulsore di una folla che non ragionava più e non si fermava nemmeno di fronte alla minaccia della morte. Durante l’assalto al silos io ero circa a metà del gruppo, il tedesco sparò una raffica che uccise molti prigionieri, tra cui anche un militare italiano. Fu l’ultima sua vittima prima di essere linciato. Entrati nel silos abbiamo trovato di tutto, c’erano persino abiti all’ultimo grido, alla francese. Io ho preso subito del dentifricio, dopo più di un anno di prigionia non ricordavo più come fosse. La gente era impazzita apriva a martellate scatole di sciroppi per poi buttarle via. Io ho preso un sacco con dentro quaranta chili di zucchero, c’è chi ha preso il formaggio e chi la farina. L’ho trascinato fuori con fatica, ma è stata la mia salvezza, perché ho potuto scambiarlo con altri generi alimentari, consentendomi di vivere fino al mio rientro in Italia».
Le torrette dei carri armati si aprono insieme ai sorrisi dei soldati americani. I prigionieri del campo di Schandelah vengono affidati ai francesi, che a loro volta li passano agli inglesi, per poi ritornare di nuovo agli americani. A tre mesi dalla liberazione, il 18 luglio del 1945, Enrico Berté può fare ritorno in Italia e, a distanza di due anni da quella sera di settembre, rientrare nella sua casa di Malnate da uomo libero.

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*Schandelah si trova in Germania. Durante il periodo nazista era un sottocampo del lager di Neuemgamme, a nord di Amburgo, da cui sono passate più di 100mila persone. Il campo era molto importante, per le raffinerie di petrolio e le fabbriche di munizioni. La liberazione è avvenuta il 6 aprile del 1945.

Enrico Berté è nato a Milano nel 1924. Architetto libero professionista, è presidente del Collegio probiviri degli ingegneri e architetti di Milano. È stato deportato nei lager in Germania a causa del suo rifiuto di collaborare con i nazisti. In seguito agli avvenimenti ricordati gli sono state conferite molte onorificenze, tra cui quella di Volontario della libertà e di Cavaliere della Repubblica.

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Pubblicato il 10 Gennaio 2002
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