Ligabue: “Quando mi dissero, la musica deve fare qualcosa”
Gli artisti hanno una responsabilità nei confronti del pubblico. Non vuol dire tacere ma scegliere come e quando comunicare
C’è qualcosa dell’urlo di Nanni Moretti, Le parole sono importanti, nel messaggio che Ligabue ha lasciato ieri a Varese. Riguarda la responsabilità che chi scrive porta con sé nei confronti degli altri. «Se c’è una cosa che rimpiango di quando ero un outsider è l’incoscienza. Potevo dire cose pesantissime. Ma più vai avanti e più cresce la tua popolarità, più matura il senso di responsabilità delle proprie parole». Questo non vuol dire tacere, ma scegliere come e quando comunicare a costo di incontrare, come ha ammesso lo stesso Ligabue, delle «conseguenze antipatiche». «È accaduto alla fine degli anni Novanta. A pochi chilometri da noi, in Kosovo, era in corso uno dei conflitti più violenti della storia. Mi dissero "La musica deve fare qualcosa". La musica deve sempre fare qualcosa. E con Jovanotti e Piero Pelù nacque "Il mio nome è mai più". Non era un clima facile quello. Volevamo esprimere un messaggio di pace… senza sembrare dei coglioni, perché così erano considerati da molti i pacifisti in quel periodo. Al governo c’era la sinistra, D’Alema che su questa vicenda non era molto in linea con noi, la destra che aveva le sue convinzioni… Ho conosciuto Gino Strada e ho visto in che condizioni operava. E ci siamo decisi ad andare avanti, ognuno ha cantato le strofe che aveva scritto. "Il mio nome è mai più" è stato il singolo più venduto in Italia. Con il ricavato abbiamo costruito due ospedali per bambini in Afghanistan. Quella volta ho vissuto personalmente nel mio paese il peso della difficoltà di menifestare un pensiero».
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