“Quella lettera non l’ha scritta Binda”

Rinviato a giudizio Stefano Binda per l'omicidio di Lidia Macchi, ma è davvero lui il colpevole? Ecco cosa sostiene la difesa

«La calligrafia sulla lettera-confessione inviata nel 1987 ai genitori di Lidia Macchi non è di Stefano Binda» affermano gli avvocati difensori dell’uomo rinviato a giudizio e accusato di aver violentato e ucciso Lidia Macchi a Cittiglio il 5 gennaio del 1987.

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(nel video la madre di Lidia, Paola Bettoni, all’uscita dall’udienza del 19 dicembre)

La nuova perizia di parte è stata commissionata dai legali di Binda, firmata dalla grafologa Cinzia Altieri, e mette in dubbio la «prova regina» che la procura generale di Milano porterà al dibattimento contro il cinquantenne disoccupato di Brebbia.

Perché questa perizia è importante?

Il delitto della giovane militante del movimento cattolico «Comunione e liberazione» è stato ricostruito, a distanza di tanti anni, dalla procuratrice Carmen Manfredda, il magistrato che ha preso in mano il fascicolo lasciato in un cassetto dalla procura di Varese.

Stefano Binda

(la lettera incriminata)

LA TESI DELL’ACCUSA

La procuratrice ha di fatto sconfessato l’indagine parziale realizzata negli anni precedenti dalla procura di Varese  e ha sostanzialmente dato una nuova spiegazione della vicenda: l’assassino, secondo la tesi dell’accusa, è la stessa persona che pochi giorni dopo il delitto, divorato dal senso di colpa, inviò una lettera anonima ai genitori della vittima intitolata «In morte di un’amica» in cui viene descritta la scena del delitto. Nello scritto si fa riferimento alla verginità persa dalla ragazza durante lo stupro, prima dell’omicidio, e si parla anche apertamente dello scenario ambientale: una notte gelata e il cielo stellato. Secondo la prima perizia grafologica dell’accusa, questa missiva è stata scritta da Stefano Binda ed inviata in forma anonima alla famiglia in quei giorni. Binda ha negato di esserne l’autore ma se venisse confermata la tesi dell’accusa avrebbe mentito. Perché? Per nascondere la sue reali responsabilità nel delitto, questo è ciò che pensano gli inquirenti.

LA TESI DELLA DIFESA

Secondo invece la consulente degli avvocati difensori, Sergio Martelli e Patrizia Esposito, quelle parole non sono mai state scritte dall’imputato.

La perizia difensiva sostiene altresì che non sia stato Binda a scrivere il biglietto intitolato «Stefano è un barbaro assassino», trovato dalla polizia nelle agende personali durante una perquisizione a Brebbia; e nemmeno sarebbe da attribuire al Binda l’intestazione della busta nella quale era contenuta la lettera inviata ai genitori di Lidia.
La consulenza è stata presentata dagli avvocati dell’imputato durante l’udienza preliminare che si è svolta ieri a Varese, al termine della quale il giudice Anna Azzena ha disposto il rinvio a giudizio del cinquantenne.

IL PROCESSO

Inizierà il 12 aprile in corte d’assise a Varese. Il gup Anna Azzena, ieri, ha elencato 26 indizi di prova contro Binda. Il processo sarà celebrato a porte aperte: si prevede una sfilata di testimoni, compresi i ragazzi di allora, amici e conoscenti di Lidia Macchi.

Lidia Macchi Riesumazione 1

(Il magistrato Carmen Manfredda)

LE PROVE

Fu lo stesso padre di Lidia, Giorgio Macchi, a intuire che la lettera arrivata a casa il giorno dei funerali fosse stata scritta dall’assassino che esprimeva un anonimo pentimento. Ma lettera a parte, tra gli indizi da verificare c’è proprio il presunto alibi di Binda il giorno della scomparsa di Lidia. Quel 5 gennaio secondo alcuni si trovava a una vacanza di Cl a Pragelato, altri testimoni dell’epoca invece non se lo ricordano. Il gip Anna Giorgetti ha ipotizzato anche che l’uomo possa essere tornato a Varese in anticipo. La circostanza sarà affrontata nel processo.

LE PROVE SCIENTIFICHE

Attualmente non ce ne sono. L’accusa ha cercato l’arma del delitto nel parco di Masnago perché un’amica di Binda ha detto di avergli visto gettare un sacchetto in quel luogo. Non sono stati trovati oggetti riconducibili al Binda, ma sono stati rinvenuti molti coltelli. A Cittiglio è stata effettuata una campagna di scavi della zona del Sass Pinì ma senza significativi risultati. Si attendono invece i risultati della riesumazione della salma. Si spera che che vi sia un dna isolabile sui poveri resti, ma finora i laboratori incaricati non hanno consegnato la relazione.

L’IMPUTATO

Ma chi è davvero Stefano Binda? Un giovane intellettuale, studente, cattolico, poeta maledetto, affascinante per i suoi compagni. Oggi è un uomo disoccupato, molto colto, ma con ancora il fardello dell’eroina che lo accompagna. Ecco un suo ritratto. (leggi)

Roberto Rotondo
roberto.rotondo@varesenews.it
Pubblicato il 20 Dicembre 2016
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