Le donne in fabbrica sono ancora penalizzate

Marinella Scopacasa, rsu della Fiom Cgil, è entrata nello stabilimento della BTicino quando era una ragazzina e ancora oggi ci lavora come operaia

cgil

«La donna in fabbrica vive una condizione complicata perché non ha le stesse possibilità di crescita di un uomo, non può arrivare ad avere determinate professionalità e spesso ha una busta paga più leggera». Marinella Scopacasa, rsu della Fiom Cgil, è entrata nello stabilimento della BTicino di Varese quando era una ragazzina e ancora oggi ci lavora come operaia. Niente più turni, ma a giornata.

Marinella, quali sono gli aspetti che penalizzano la donna in fabbrica?
«Ci sono delle condizioni che riguardano il ruolo della donna in famiglia che finiscono per determinare un trattamento diverso e penalizzante rispetto ai colleghi uomini. Parlo della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro: noi dobbiamo lavorare e accudire le famiglie e la casa, aspetto che irrigidisce la nostra condizione di lavoratori».

La BTicino è sensibile a questi temi?
«L’azienda è come un dinosauro e dunque è lenta, come del resto lo sono tutte le grandi organizzazioni. Al tempo stesso però ha dimostrato una grande apertura su questo tema. Ben 3 anni fa, con un accordo di secondo livello abbiamo anticipato la legge Cirinnà. E quell’accordo per il suo contenuto innovativo è stato inserito in una discussione ufficiale per il rinnovo del contratto nazionale».

Perché la differenza di genere si riflette nella busta paga, se c’è un contratto collettivo nazionale che prevede pari trattamento?
«Sono le condizioni di contesto e individuali che cambiano. Quando si entra in azienda si viene assunti con un terzo livello uguale per tutti, uomini e donne, poi i singoli si mettono in gioco. Un uomo si può giocare la carta della disponibilità, ad esempio, a fare gli straordinari. Lo possono fare con facilità perché le loro giornate sono più flessibili rispetto a quelle delle donne. Lo stesso accade per la disponibilità nelle manutenzioni degli impianti che, guarda caso, spettano sempre agli uomini. Diverso invece è il discorso per le impiegate, il cui ingresso in azienda avviene in età più matura, in genere alla fine del ciclo di studi, e con una flessibilità di orario che un’operaia non ha. La mancanza di una lavoratrice nella linea di produzione può creare seri problemi perché nel processo produttivo c’è una forte interdipendenza. Per un’impiegata questa condizione non esiste, c’è una maggiore componente individuale nel suo lavoro. Differenze che si conciliano bene con gli impegni in famiglia».

L’industria 4.0 e l’avvento del digitale potrebbero cambiare questa situazione?
«Non credo, anzi, la irrigidirà di più perché il tema di fondo é sempre lo stesso: le esigenze produttive non sono compatibili con quelle familiari che richiedono molta flessibilità. Industria 4.0 può alleggerire il lavoro all’interno dell’azienda, ma non quello che ci aspetta fuori dalla linea di produzione, in termini di orari e di urgenze. La BTicino su questi temi è cambiata tantissimo, ma si tratta di processi complessi che devono partire da una testa che sta in Francia per raggiungere tutti gli stabilimenti del gruppo Legrand, sparsi nel mondo. Negli ultimi 5 anni, nella conciliazione dei tempi di vita e lavoro, ha accelerato molto e noi, dal 2016, ci stiamo confrontando su questi temi con la commissione pari opportunità».

Questo problema ha anche una ragione generazionale?
«No, perché oggi l’età media dei lavoratori diretti della BTicino è tra i 40 e 45 anni, piuttosto alta. Non c’è stato un ricambio generazionale perché a fronte di alcune fuoriuscite non ci sono stati nuovi ingressi, inoltre durante la crisi l’azienda non ha licenziato. Nel frattempo sono cambiati i contenuti della conciliazione dei tempi di vita e lavoro: un tempo erano i figli piccoli, oggi sono i genitori anziani che vanno accuditi e curati con la stessa attenzione».

Lei non pensa che su questi punti il welfare integrativo, su cui le parti sociali hanno insistito molto negli ultimi anni, potrebbe aiutare tanto?
«Le piattaforme di welfare sono interessanti ma offrono servizi che sono un po’ lontani dalle esigenze degli operai. Gli indiretti già le usano di più, come strumenti on demand. Il lavoratore che fa i turni non ha il tempo di confrontarsi con questa offerta di servizi e il passaparola funziona solo se si hanno interessi in comune e se si vivono le stesse condizioni. Comunque sul tema della comunicazione di questi servizi c’è ancora tanto da fare».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 08 Marzo 2019
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