Nell’impresa familiare apertura, cuore e competenza fanno la differenza
Salvatore Sciascia professore di economia aziendale presso la Liuc: «Le famiglie imprenditoriali hanno un compito difficilissimo: mantenere un equilibrio tra il bene della famiglia e il bene dell'impresa»
Salvatore Sciascia, professore ordinario di economia aziendale presso l’università Liuc di Castellanza, proprio non se l’aspettava. Il primo giorno di lezione del corso dedicato al Business family management, si è trovato l’aula stracolma di studenti e una lunga coda fuori dalla porta. «Pensavo di aver sbagliato aula, considerato che molti studenti che chiedevano di assistere alla lezione erano stranieri» dice il docente. In effetti un percorso di studi nell’ambito della laurea triennale, interamente dedicato alla gestione delle imprese a proprietà familiare, è una novità e non solo per l’Italia.
Il family business management, come viene tradotto nel linguaggio degli economisti, è molto di più di un fenomeno nostrano. In un report dell’Economist, pubblicato nell’aprile del 2015 e dedicato interamente alle imprese familiari, si sottolinea come le imprese a controllo familiare rappresentino più del 90% di tutte le imprese attive nel mondo.
Professore, perché quando si parla di capitalismo familiare italiano spesso lo si descrive negativamente, quasi fosse una patologia del nostro sistema economico?
«È un’immagine che non corrisponde alla realtà perché buona parte del Pil e dell’occupazione sono generati dalle imprese familiari. Secondo i dati Aidaf, nell’economia italiana le imprese familiari con un fatturato superiore a 20 milioni di euro rappresentano il 65% del totale delle imprese, aziende che danno lavoro a 2,4 milioni di lavoratori per un fatturato complessivo di oltre 730 miliardi di euro. Se consideriamo le imprese con un fatturato inferiore a 20 milioni di euro, quella percentuale sale all’85%. Le generalizzazioni non servono, per capire quali sono le luci e le ombre di un’impresa familiare occorre valutare il grado di coinvolgimento della famiglia nella singola impresa».
Quando il coinvolgimento della famiglia si può definire virtuoso?
«Per coinvolgimento s’intendono tante cose. C’è il coinvolgimento nella proprietà, nel consiglio di amministrazione e nel management, cioè nella gestione quotidiana dell’impresa. Quindi si può avere un’impresa familiare al cento per cento in termini di proprietà, ma poi molto aperta rispetto a tutti gli altri livelli. Questa formula, in genere, è quella che funziona. La parola “apertura” è fondamentale purché sia declinata con un certo ordine. La famiglia nell’impresa deve essere disciplinata, cioè deve saper stare al suo posto, ma al contempo deve essere sempre pronta a dare il massimo quando scende in campo per partecipare alla vita dell’azienda».
Però quando c’è di mezzo la successione imprenditoriale questa disciplina può anche venir meno.
«Le famiglie imprenditoriali hanno un compito difficilissimo che merita molto rispetto. Spesso chi le critica non si rende conto di quanto sia difficile mantenere un equilibrio tra il bene della famiglia e il bene dell’impresa che in certi casi sono in antitesi, mentre in altri, più fortunati, viaggiano di pari passo».
Quanto contano i legami affettivi nella scelta del successore?
«Sono il grande elemento distintivo che caratterizza il mondo delle imprese familiari. Questo cuore che c’è nell’impresa è un’arma a doppio taglio perché da una parte può essere il segreto del grande successo e della prosperità e dall’altra può essere anche il grande problema. Il cuore è quello che ti fa dare tutto per raggiungere il successo, ma che ti può ostacolare nel momento in cui devi scegliere per il futuro dell’impresa. In questo senso l’Italia è ancora un paese tradizionale che si caratterizza per successioni intrafamiliari. Le cose stanno cambiando, ma siamo ancora lontani dal modello tedesco e soprattutto da quello francese, che mantiene la proprietà all’interno della famiglia per affidare la leadership a un soggetto esterno. Non è detto che questa sia sempre la soluzione migliore, soprattutto se in famiglia ci sono soggetti di grande valore, perché il leader scelto all’interno della famiglia, quando è capace, ha una motivazione in più rispetto a quello esterno».
Questo vale sia per le piccole che per le grandi imprese?
«Secondo alcuni studi, nelle imprese di dimensione più piccola si hanno effetti molto positivi quando il leader familiare è circondato da un buon consiglio di amministrazione che funziona davvero, composto da soggetti esterni qualificati e con competenze specifiche. I numeri ci dicono che l’impresa ha risultati più performanti. Perciò non sempre è necessario un leader esterno, questo aspetto si osserva a volte anche nelle grandi imprese quotate in borsa. Quindi ben venga un leader familiare aiutato da un buon board».
Ma che caratteristiche deve avere il leader familiare in caso di successione?
«Non c’è un identikit preciso, ma si possono elencare alcune caratteristiche che ricorrono. Innanzitutto deve essere capace, deve avere studiato il più possibile, deve aver fatto esperienze all’esterno dell’impresa e all’estero, perché oggi se non sai stare sui mercati internazionali, non vai da nessuna parte. E infine, molto importante, è avere avuto un’esperienza creativa, come il lancio o la partecipazione a un progetto imprenditoriale. E poi c’è la volontà, aspetto determinante. Molti entrano in azienda perché non hanno alternative o perché hanno alternative economiche inferiori. La volontà costruttiva è invece quella che gli studi fanno coincidere con la “volontà affettiva”, che è propria di coloro che si identificano nell’impresa familiare e non si vedrebbero mai al di fuori di essa. Infine, se l’impresa porta il tuo stesso nome questa volontà raggiunge la massima espressione. È l’impatto della cosiddetta eponimia che si fa sentire su tutti i processi aziendali».
Perché dalla crisi molte imprese familiari sono uscite rafforzate?
«Sicuramente hanno resistito di più. Le famiglie hanno sacrificato la propria ricchezza per evitare fallimenti che avrebbero avuto conseguenze negative sui territori. Le ragioni sono diverse e riguardano la reputazione, l’orgoglio, il fatto che spesso queste imprese portano il nome della famiglia. Bisogna considerare che nei casi virtuosi, non in tutti naturalmente, queste imprese vivono di relazioni profonde e sincere, motivazioni che vanno ben al di là del semplice profitto».
Business family e dimensione di impresa è un tema che spesso ricorre nel dibattito corrente. La crescita è un’opzione o un imperativo?
«È vero che quasi tutte le piccole imprese sono familiari, ma questo genera un falso mito, cioè che tutte le imprese familiari siano piccole. A questo proposito, il 26 ottobre scorso sul Financial Times è comparso un articolo dal titolo “Italian capitalism remains a family affair” (“Il capitalismo italiano rimane un affare di famiglia”, ndr). Ebbene, l’autore sottolineava che in Italia un terzo delle società quotate sul principale indice di Borsa Italiana ha come azionista di riferimento gruppi familiari. E stiamo parlando di grandi imprese e grandi gruppi industriali. Crescere è un imperativo perché le dimensioni contano e le economie di scala valgono. Le famiglie imprenditoriali devono avere ben chiaro che la crescita è importante specialmente in certi settori. Quando sento un imprenditore affermare che non vuole crescere per preservare la qualità, mi preoccupo sempre. La crescita è necessaria e questo non esclude la bontà del family business. Il modello familiare sotto certe condizioni funziona bene ma ricordo che la famiglia è un’arma a doppio taglio: se sappiamo impugnare bene la spada, riusciamo anche a utilizzarla correttamente. Ed è per questo che in Liuc si studia in modo approfondito il family business e lo si fa studiare ai ragazzi con un corso interamente in inglese. Il successo che ha riscosso tra gli studenti stranieri è indicativo di quanta consapevolezza ci sia all’estero sull’importanza e l’impatto che l’impresa familiare ha nell’economia globale».
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