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La Shoah a Varese tra i luoghi della speranza e del terrore
Lo storico Robertino Ghiringhelli è stato all'istituto De Filippi per raccontare la storia che lega la Città giardino al destino dei deportati nei campi di concentramento nazisti
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Secondo i dati Eurispes, un italiano su sei pensa che la Shoah non sia mai esistita, mentre un altro 16% della popolazione pensa che in fin dei conti il fenomeno non sia stato poi così drammatico. La ricerca mostra inoltre che più della metà dei nostri connazionali è convinta che le scritte apparse nei giorni scorsi sulle porte di casa dei sopravvissuti allo sterminio o dei loro discendenti siano il frutto di un linguaggio d’odio sempre più diffuso.
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«È importante che il ricordo dell’Olocausto non svanisca insieme ai suoi ultimi sopravvissuti e che anzi possa continuare a vivere attraverso le nuove generazioni», così i rappresentanti dei sindacati pensionati Spi (Cgil), Fnp (Cisl) e Uilp (Uil) hanno aperto il convegno dedicato alla Memoria che si è tenuto oggi, mercoledì 12 febbraio, all’istituto De Filippi di Varese. Nel corso dell’incontro Robertino Ghiringhelli, direttore del dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica di Milano, ha accompagnato il pubblico alla scoperta dei luoghi del terrore e della speranza della città di Varese.
Sono stati 130 i varesini deportati per motivi razziali sotto il regime fascista. A loro si devono però aggiungere tutti i cittadini ebraici catturati mentre tentavano di attraversare il confine con la Svizzera e detenuti a Varese in attesa di essere deportati. Tra questi c’era anche Liliana Segre, all’epoca una ragazzina di 13 anni in fuga dalla sua Milano.
«Spesso – ha spiegato Robertino Ghiringhelli – si parla della indifferenza della società di fronte alla Shoah. In realtà il popolo italiano durante il regime fascista non era più abituato al dialogo, e tutte le informazioni che riceveva erano filtrate da censura e propaganda. Ognuno era solo e legato da due parole “ubbidienza” e “paura”. I regimi totalitari sono nemici del dialogo; quando nasce il confronto tra le persone, la dittatura inizia a morire».
Oltre al carcere dei Miogni (dove erano tenuti prigionieri gli ebrei), erano molte le strutture destinate alla detenzione e agli interrogatori dei sospettati. Edifici e ville a volte insonorizzati per soffocare le urla delle persone torturate e abusate.
A Varese esistevano però anche dei luoghi di speranza. Abitazioni private, chiese e oratori dove sacerdoti, suore e antifascisti nascondevano e aiutavano i loro concittadini ebraici ad abbandonare il paese. È il caso di don Carlo Sonzini e di don Franco Rimoldi, soprannominato “don Carnera” per la sua statura. Catturato dagli uomini del regime, don Franco Rimoldi si è salvato solo grazie all’intervento del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster in persona.
«Se delle realtà strutturate come i sindacati – hanno commentato al termine dell’incontro i rappresentanti delle tre delegazioni – riuscissero a mettersi in gioco nell’affrontare delle tematiche che riguardano concretamente il paese, allora potremmo dare veramente un forte contributo nel costruire una società migliore».
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