Hikikomori, Crepaldi racconta “I giovani che non escono di casa”
Un fenomeno che in Giappone ha raggiunto una dimensione preoccupante ma che interessa tutti i paesi sviluppati. A Villa Recalcati una serata per conoscere le ragioni che spingono i giovanissimi all'isolamento
“Stare in disparte”, questo significa Hikikomori. Un fenomeno individuale e sociale al tempo stesso, che coinvolge quei giovani che, per una serie di pressioni e disagi derivanti dalla loro condizione sociale e personale, arrivano ad auto-isolarsi, riducendo la loro vita alle mura domestiche, chiudendosi al mondo esterno sia psicologicamente che fisicamente. Nel suo libro “Hikikomori – I giovani che non escono di casa”, Marco Crepaldi, affronta questa tematica in modo limpido cercando di individuarne le cause e le possibili vie d’uscita. Il volume, edito da Alpes Italia, è stato presentato ieri sera a Villa Recalcati, nell’ambito del Premio Chiara.
Crepaldi, psicologo e presidente dell’associazione Hikikomori Italia, intervistato dal vicedirettore di VareseNews, Michele Mancino, definisce questo fenomeno sociale “una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche delle società capitaliste ed economicamente sviluppate”. Una condizione che non è una malattia mentale, non può essere associata alla depressione o a forme di psicosi e schizofrenia e non si tratta nemmeno di una malattia fisica. Hikikomori è un disturbo disadattivo di tipo sociale, che coinvolge persone che per vari motivi non riescono ad adattarsi alla società. Si parla di persone che non lavorano, non studiano, non hanno amici. Gli unici contatti che hanno sono – in alcuni casi – con i genitori e soprattutto tramite internet.
“Questo fenomeno in Giappone presenta numeri che non ha nel resto del mondo, superando il milione di casi – racconta Crepaldi – l’Hikikomori dipende a livello sociologico dalla competizione sociale: più una società è competitiva, più le persone competono tra di loro per eccellere, fino a che qualcuno rimane inevitabilmente sconfitto. Il Giappone è una delle società più competitive al mondo, che ha puntato tutto sullo sviluppo economico e sociale. Il tasso di disoccupazione giovanile nel Paese è solo del 5%, così lontano dalla realtà italiana, dove si arriva a toccare il 40 %. Eppure, nonostante la nostra percentuale di disoccupazione giovanile sia otto volte più alta del Giappone, loro hanno più persone giovani che non entrano nel mondo del lavoro. Questo perché l’iper-competizione che ha portato la società giapponese a svilupparsi in termini giganteschi, non ha tenuto conto degli aspetti umani”. Tuttavia anche in Italia l’Hikikomori è un fenomeno presente, essendo questo un disagio sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati. Nel nostro paese non ci sono ancora dati ufficiali, ma si stimano almeno centomila casi. I più a rischio sono i giovani dai 14 ai 30 anni, principalmente maschi, anche se il numero delle ragazze potrebbe essere sottostimato a causa di una serie di questioni culturali.
Un Hikikomori possiede una grande ansia del giudizio sociale, ansia nel sentirsi falliti, sbagliati, non adatti alla società, ed è questo che lo porta a sviluppare la volontà di allontanarsi da una società in cui non si riconosce. Uno degli aspetti fondamentali è che il soggetto non si isola perché sta meglio da solo, ma perché possiede una visione delle relazioni come qualcosa di opprimente. Esistono una serie di meccanismi che fanno parte della cultura giapponese che fomentano questo fenomeno.
I giapponesi, nella loro società collettivistica, mantengono una netta divisione tra vita privata e vita pubblica e per loro l’apparenza sociale è importantissima. “Tradire l’apparenza pubblica è un motivo di grande vergogna – prosegue l’autore – i giapponesi ragionano diversamente dalle società occidentali, che sono più individualistiche. La vittoria del gruppo è più importante del singolo successo e la vittoria individuale non può essere a discapito del gruppo. Deludere la famiglia, significa disonorarla. Questo è causa di profondissima vergogna. Per questo motivo in Giappone tendenzialmente queste persone non hanno contatti con i genitori”. L’Hikikomori stesso è un disonore, ragion per cui le famiglie spesso non chiedono aiuto per paura di rovinare la propria immagine.
“Oggi molti genitori si realizzano in base alla realizzazione dei figli, quindi la pressione sul figlio raddoppia. Per il genitore un figlio è sempre speciale. Se il figlio sta male anche il genitore non riesce a fare niente. Così il figlio è carico di una doppia ansia, una doppia responsabilità, poiché sta male lui e sta male perché la sua ansia fa star male anche i genitori”.
Nel suo libro, Crepaldi affronta in modo approfondito gli aspetti che portano a creare la condizione di disagio in cui versa un Hikikomori, spiegando parallelamente quali sono le modalità e i passi da affrontare per aiutare un Hikikomori a riproporsi all’interno della società che secondo lui lo rifiuta. Non affrontare la questione Hikikomori oggi, significa avere delle persone completamente inattive domani, che non sanno prendersi cura di loro stessi, raggiungendo anche situazioni estreme. Molti di loro non hanno genitori che possano prendersene cura, motivo per cui il governo del Giappone li fa rientrare nella categoria dei nuovi poveri.
Dopo anni di isolamento questi individui diventano completamente avulsi dalla società. “Per questo motivo – conclude lo psicologo – l’obbiettivo non è farlo uscire di casa, farlo relazionare, a tutti i costi. E’ necessario che lui stesso sia motivato abbastanza da riuscire a farlo uscire spontaneamente. E’ l’Hikikomori a dover trovare il motivo per uscire. Queste persone devono essere aiutate a trovare un vero interesse che sia motivo per dire okay, vado avanti, esco, mi relaziono”.
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