“Martica e Campo dei Fiori: da dove cominciare?“
Una sortita nei boschi dopo gli ultimi, catastrofici eventi atmosferici. L'opinione dell'agronomo Valerio Montonati
Una sortita nei boschi dopo gli ultimi, catastrofici eventi atmosferici. L’opinione dell’agronomo Valerio Montonati
Dopo i recenti, devastanti, eventi meteorologici del 24 settembre e del 2 ottobre scorsi, che continuano a richiamare la nostra attenzione sul cambiamento climatico in atto con fenomeni meteo più simili ai tifoni tropicali piuttosto che alle tempeste nostrane (che si sono sempre verificate anche se con frequenze ed intensità minori), nel corso delle mie escursioni sulle montagne prealpine che frequento costantemente (non solo con obiettivi fungini), si impongono alcune riflessioni ed osservazioni, non scevre da dubbi e perplessità, anche alla luce di scritti ed interventi vari proposti sui media da tecnici e politici.
Il Campo dei Fiori e l’“esondazione” del Tinella.
ho letto con grande interesse l’intervento tecnico del collega ed amico Dott. Alessandro Nicoloso che da anni è impegnato “sul campo”. Non aggiungo nulla sul tema del trasporto solido e dell’erosione del bacino indagato, basta percorrere (come ho personalmente fatto qualche giorno dopo il luttuoso pomeriggio) il ramo ovest del Tinella a monte della vasca di laminazione poco oltre la cascina “Zambella” (provenendo dal parcheggio sotto il Poggio) per rendersi conto dell’evento. Ad un certo punto ho provato a fare delle misure “Spannometriche” della portata in un istante dell’intensissima pioggia (una vera bomba d’acqua come si sente ormai continuamente ripetere) : ho misurato circa due metri il diametro dell’alveo (in quel momento, naturalmente, del tutto asciutto) ed ho verificato un’altezza della portata di almeno due metri (osservando erbe ed arbusti piegati dalla forza dell’acqua in scorrimento una spanna abbondante oltre i miei relativamente modesti 170 cm.). L’area del fronte d’acqua corrisponderebbe a 4 m2 . Calcolando che nel momento di massima intensità l’acqua potesse muoversi ad almeno 2 metri al secondo (ma anche oltre), avremmo avuto, in quella sezione specifica, una portata di almeno 8 m3 di acqua con grossi ciottoli e piccoli massi in movimento insieme a pezzi di alberi di dimensioni varie : una condizione spaventosa anche a vedersi da una distanza di sicurezza. Ma in quel luogo ed in quel momento non vi sarebbe stato alcun punto sicuro!
Aggiungo una osservazione ed una curiosità: sulla prima sarebbe molto interessante, vista la variegata natura delle rocce portate alla luce dall’ “escavatore naturale”, fare un giro in zona accompagnati da un geologo che potrebbe descriverci la natura di quelle pietre e la loro origine, alcune delle quali certamente trasportate sulla nostra montagna dal ghiacciaio del Ticino nel corso dell’ultima glaciazione.
La curiosità: salendo poche centinaia di metri, ho trovato una costruzione in pietra datata 1923 che parrebbe la presa di un acquedotto, non saprei dire se vecchio ed in disuso oppure ancora collegato al servizio odierno.
Tornando allo scritto del Dott. Nicoloso, ritengo che sarebbe molto interessante approfondire gli aspetti legati alla impermeabilizzazione dei suoli dopo il passaggio di un incendio (causa evidente della minor capacita di questi terreni di assorbire acqua per lasciarla tranquillamente filtrare nei pertugi rocciosi della montagna) argomento, questo, già evidenziato nel corso del convegno post incendio 2017, come richiamato dall’amico Alessandro, coinvolgendo, magari, gli altri relatori di quella interessante serata. Sarebbe in particolare utile capire la natura del suolo “Combusto”, quali reazioni interagiscano con la materia organica e quella inorganica, quali processi fisico – chimici determinino la minor plasticità, la riduzione della porosità e della coesione di un suolo forestale, se gli esiti siano del tutto simili per sottosuoli di natura diversa (un substrato carbonatico come quello del Campo dei Fiori piuttosto che uno porfirico come quello della “Martica”) e quali interventi diretti (ammesso che ne esistano) possano ripristinarne la funzionalità al di là da operazioni di sgombero delle piante bruciate e dei residui legnosi accompagnate dalle nuove piantagioni di alberi ed arbusti, operazioni, queste, che, come ben sappiamo, non sono state assolutamente eseguite (almeno per i versanti che oggi hanno così tragicamente “espresso” la loro fragilità). Dalla letteratura specifica si sa, per esempio, che lo strato di cenere sarebbe esso stesso un fattore di idrofobia e che la sua rimozione repentina (in caso piogge violente), determina inoltre la perdita, per dilavamento, degli elementi nutritizi resisi disponibili in loco.
Ci sono o si possono individuare tecniche meccaniche, chimiche o biologiche in grado di mettere velocemente in sicurezza tali aree, al di là di qualche metodo dell’ingegneria naturalistica che mi viene in mente come la formazione di sistemi a scacchiera di palizzate in legname mediante il riuso in loco del materiale disponibile così da ridurre l’effetto del ruscellamento con la conseguente erosione del suolo accompagnato dall’inerbimento immediato di quei tratti di territorio?
La “Piccola” tempesta “Vaia” che ha spazzato la “Martica”
analogamente agli effetti della nota tempesta “Vaia”, anche il versante “Brinziese” della “martica” ha subito evidenti danni (sebbene proporzionati ad un evento minore) in seguito alla buriana del 2 ottobre scorso. Me ne ero accorto già risalendo il Brinzio sabato 3 ottobre osservando le moltissime piante rovesciate sul versante limitrofo alla strada, l’ho ulteriormente verificato nel corso di una passeggiata verso i “Valicci” alcuni giorni dopo: faggi, querce, pioppi, carpini, abeti, giacevano riversi sul terreno singolarmente, a gruppi di alcuni esemplari addirittura intere ceppaie di faggio con numerosi polloni già di dimensioni ragguardevoli.
Anche qui, desidero proporre delle osservazioni : sull’azione del vento e sulla resistenza delle piante.
Al di là delle considerazioni generali sullo stato attuale del clima, occorre ricordare che oltre una certa soglia di potenza del vento (espressa in chilometri orari di velocità) gli alberi non resistono : si ribaltano a terra con una parte più o meno consistente del terreno esplorato dalle radici, dove la pianta si ancora (zolla radicale naturale); vengono stroncate mediante rottura dei tessuti legnosi del tronco, in genere nelle porzioni medio alte dello stesso, preferibilmente ove vi fossero dei punti deboli determinati, per esempio, da vari agenti naturali (fulmini, incendi, infezioni fungine) ma anche su legno sano che, talvolta, lo si osserva ritorto e lacerato segno dell’immane forza che vi ha agito contro, come ho potuto osservare per una discreta quercia straziata a media altezza sulla strada che da Dumenza sale all’alpe Pradecolo. Un ruolo non secondario lo gioca l’effetto vela dato dall’azione del vento sull’apparato aereo della pianta : tronco, rami, apparato fogliare e con maggiore intensità con l’aumentare dell’altezza delle stesse. Nel caso specifico, le piante, per lo più ancora con le chiome verdeggianti, hanno subito “l’effetto vela” nella forma più violenta. Se fossero state già spoglie, infatti, la forza esercitata sul complesso pianta – terreno sarebbe stata minore e, probabilmente, molte avrebbero resistito.
La scala di Beaufort indica, per una forza del vento tra i 90 ed i 100 Km/h (considerato raro nell’entro terra e corrispondete alla burrasca fortissima o tempesta in mare con onde di 9 m. di altezza media e 10 punti sulla scala citata), la discreta possibilità di avere alberi sradicati oltre a eventuali danni agli abitati.
Durante la camminata ho verificato diffusi ribaltamenti : unidirezionali e lungo tratti non collegati tra loro segno probabile che il vento abbia agito su punti localizzati concentrandosi in folate micidiali che non hanno dato scampo agli esemplari incontrati specie per quelli radicati su terreni poco profondi.
In effetti ho notato che molte delle piante si erano affermate e sviluppate (parliamo, andando a memoria, di piante di oltre 10 m. di altezza) su terreni poco profondi (situazione piuttosto frequente in montagna) con il substrato roccioso affiorante: in questo caso le radici non possono ancorarsi più di tanto e così non oppongono resistenza oltre un certo limite (per questo si potrebbero ipotizzare un’intensità del vento inferiore ai 90 km/h).
Credo che le ditte forestali locali avranno da lavorare un paio di stagioni solo per ridurre le piante abbattute ma l’estrema polverizzazione fondiaria che caratterizza i nostri territori montani non favorirà certo l’azione degli addetti sia in termini logistici sia sotto il profilo economico dando per scontata la massima disponibilità del Parco del Campo dei Fiori sotto il profilo burocratico.
A proposito di economia dei lavori forestali, colgo l’occasione, concludendo questo mio intervento, per riprendere la notizia, apparsa qualche giorno fa, circa la visita dell’assessore di Regione Lombardia Rolfi, accompagnato da un paio di consiglieri regionali, al Parco del Campo dei Fiori per prendere visione, insieme al Presidente ed allo staff tecnico, direttamente della complessa situazione delle pendici boscate delle nostre montagne e sui dissesti innescati dalle ultime tempeste su una situazione già fragile dovuta al sostanziale abbandono delle pratiche forestali storiche.
L’articolo ha evidenziato, oltre allo stanziamento di una interessante somma per proseguire alcuni interventi di contrasto al dissesto idrogeologico, l’accenno, fatto dai politici presenti, circa la valorizzazione della filiera bosco – legno.
Non credevo ai miei occhi, ma l’illusione che qualcuno cominciasse a ragionare concretamente ed efficacemente in termini di economia del bosco, è durata lo spazio di poche parole.
Credo che ridurre il concetto di filiera bosco – legno al recupero del legname disponibile dopo le calamità per alimentare centrali a biomassa che a Varese non esistono (la più vicina credo sia quella realizzata a Marchirolo e non so nemmeno se sia ancora in esercizio) e che, data la lontananza delle poche realtà presenti nel nostro paese (dove la semplice proposta di realizzarne una di dimensioni economicamente sostenibili genera sollevazioni popolari e la rivolta di quegli ambientalisti che sono sempre per una soluzione futuribile “Di là da venire”), darebbe un esito negativo nella valutazione costi – benefici, sia quanto meno fuorviante.
Lasciamo dunque che i boscaioli locali lavorino efficientemente il legname disponibile rifornendo i focolari domestici (minimizzando la burocrazia dei nulla osta e dei permessi e riqualificando la viabilità forestale) e preoccupiamoci, per esempio, di rilanciare una castanicoltura per la produzione di paleria riprendendo la tradizione del ceduo di castagno con turni di 10/15 anni ed allora sì avremo rilanciato una vera filiera bosco – legno come già è avvenuto su alcuni territori montani di altre regioni d’Italia come la Liguria, la Toscana e la Calabria.
Dott. Agr. Valerio Montonati
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