L’esperienza in Zambia di Giovanni: “Mi guardo intorno e mi rendo conto di quanto siamo fortunati”

Seconda puntata del racconto di Giovanni Riganti, 31 anni, nato e cresciuto a Varese, nel quartiere di Biumo Inferiore, infermiere di professione che ha vissuto un’esperienza di vita forte e che sicuramente resterà per sempre nella sua mente e nel suo cuore in Africa

Giovanni Riganti in Zambia

Seconda puntata del racconto di Giovanni Riganti, 31 anni, nato e cresciuto a Varese, nel quartiere di Biumo Inferiore, infermiere di professione che ha vissuto un’esperienza di vita forte e che sicuramente resterà per sempre nella sua mente e nel suo cuore in Zambia.

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L’esperienza in Zambia di Giovanni: “Mi guardo intorno e mi rendo conto di quanto siamo fortunati” 4 di 16

La mia avventura in Zambia si è conclusa il 1 dicembre. Le ultime due settimane in Zambia sono trascorse in un crescendo di emozioni: il fatto di essermi ambientato mi ha permesso di entrare molto più in relazione con la gente e moltiplicare i miei incontri.

La prima esperienza che voglio raccontare è anche l’ultima in ordine cronologico. Per quattro
giorni sono stato ospite dell’istituto St. Daniel Comboni Social Development Centre (SDCSDC) a Makeni Villa, quartiere sorto attorno a Lusaka, la capitale. Qui le suore comboniane hanno costruito un “porto franco”: un giardino con giochi da esterno ed un prato con qualche panchina, due librerie e quattro aule dove ragazzi e adulti possono venire a studiare in silenzio; hanno persino la possibilità di avere un docente che li aiuti personalmente. Attorno all’istituto sorge un muro di cinta sormontato dal filo spinato e durante la notte, per questione di sicurezza, due cani fanno la guardia. Io, essendo un musungu (uomo bianco), non avevo la possibilità di uscire dall’istituto da solo, sia perché mi sarei perso nel compound, il quartiere fatto di strade senza nomi e numeri civici, sia perché avrei potuto fare qualche incontro “complicato”.

Da Varese allo Zambia. L’esperienza in Africa di Giovanni: “Qui bisogna guadagnarsi tutto”

Ci tengo a raccontarlo perché l’ho confessato anche alle suore: avevo la netta sensazione di essere chiuso dentro. Ero molto stranito. La gente aveva una disponibilità economica maggiore
rispetto a Mazabuka, eppure io mi trovavo chiuso dentro; e non dovevo essere il solo a sentirmi
così, perché tutte le case hanno recinzioni e la sera nessuno circola per le strade. Ho avuto la
netta percezione che il fatto di possedere più cose avesse obbligato la gente a custodirle dietro il
filo spinato, che la ricchezza – e mi fa sorridere parlare di ricchezza in Zambia – avesse portato la
gente a costruire muri. Don Stefano dice: «Se avere tanto ci fa chiudere, significa che qualcosa è
andato storto». Senza fare chissà quale riflessione antropologica, penso a me: quante volte il desiderio di possedere altro mi ha distratto da quello che già ho? Quante volte i miei progetti sono diventati la mia ragione di vita, distraendomi da chi ho vicino?

Dopo il primo impatto abbastanza difficile, mi sono reso conto che la SDCSDC che mi ospitava era qualcosa di grande, ma io guardavo solo a ciò che c’era fuori, senza rendermi conto della bellezza in cui ero immerso, come il giardino curato da persone che quotidianamente lavorano per dare a tutti la possibilità di vivere qualcosa di diverso.

Un giorno ad esempio ha cominciato a piovere alle 14, ma verso le 16.45 ha smesso. Giusto il tempo per prepararsi, perché alle 17 inizia l’ultima ora di luce prima del tramonto. I campi da basket e calcio della St. Ambrose Mission di Mazabuka sono gremiti di persone. Quelli che arrivano tardi corrono, perché il rischio è che finisca il tempo disponibile e non si possa più giocare. Mi ha stupito essere circondato da persone che corrono per giocare o semplicemente incontrare qualcuno dopo un pomeriggio di pioggia; mi ha stupito pensando a come spesse volte, trascinato dall’inerzia della mia giornata, rimando, mentre qui, avendo meno possibilità, ogni partita lasciata è veramente persa.

Giovanni Riganti in Zambia

Ho cercato anch’io di dare il mio contributo. Ora, tanti amici resteranno colpiti e alcuni (forse a buon diritto) non ci crederanno: durante i pomeriggi ho tenuto delle lezioni di “educazione sanitaria” in inglese. Ogni tanto i miracoli accadono…

Riavvolgendo il nastro di qualche giorno, l’esperienza che personalmente reputo più potente di tutte l’ho vissuta in un pomeriggio a Mazabuka. Insieme a don Roberto sono andato a visitare un anziano colpito da due ictus; don Roberto mi aveva invitato dicendo che da infermiere avrei potuto aiutarlo a leggere qualche situazione in maniera diversa. Abbiamo parcheggiato nel compound e un amico ci ha portato attraverso strade pedonali fino alla casa. Provate ad immaginare una piazzetta con al centro una struttura di un metro quadrato – il bagno comune – con tre case che si affacciano sullo spiazzo; una delle baracche era completamente in lamiera, avevo caldo solo a guardarla. Fortunatamente siamo entrati in quella che mi sembrava meno peggio, con addirittura una piccola veranda all’ingresso. Come in tante case zambiane, la cucina consisteva in un braciere esterno, mentre all’interno c’erano solo due stanze. Il tetto della casa era in lamiera e le finestre erano chiuse con il cellophane per non far entrare le mosche, con qualche raro buco per far girare l’aria.

Ci ha accolto la moglie e ci ha presentato il marito, un uomo di 60 anni circa (o almeno credo, è l’età che darei alla moglie) che da due anni è allettato su un materasso storto perché troppo grande per il letto. Ho iniziato a vacillare sia per il caldo sia per la scena di un uomo zambiano che da due anni vive in una situazione del genere, chiuso in quella baracca. Dopo una benedizione, la moglie si è seduta vicino al marito, ha tolto il cuscino e ha appoggiato la testa sulle sue gambe. Faceva sempre più caldo. Ha raccontato una parte della loro storia e gli ultimi anni trascorsi dal marito, ma ormai era da un paio di minuti che non riuscivo più a connettere. Alla domanda: «Signora, lei dove dorme?», la donna ha baciato il marito e ha risposto: «Per terra, così non lo disturbo». Sono uscito dalla stanza, non sono riuscito a reggere una risposta del genere. Dopo qualche minuto sono rientrato, ancora decisamente colpito. Durante il rientro a casa mi è tornato in mente un pezzo del libro di Daniele Mencarelli “La casa degli sguardi”, in cui una suora bacia teneramente un bambino deformato dalla malattia:

Non serve capire, comprendere. Serve accogliere l’umano con tutta la forza che ci è concessa. Arrivare alla bellezza che non conosce disfacimento, nucleo primo e inviolabile.
Fronteggiare l’orrore per sfondarlo. Ecco il primato d’amore che ho visto negli occhi di quella suora. Una vetta, un’altezza destinata a pochi. Solo a chi non arretra mai di fronte alla realtà, senza mai chiudere gli occhi, con un coraggio sterminato nel sangue, più forte di qualsiasi paura, egoismo.
Non ci si arriva senza coraggio.
Improvvisamente, mi fioccano davanti agli occhi gli ultimi anni della mia vita. Quante parole, nomi di droghe e malattie, soltanto per dire che mi manca il coraggio di vivere e veder vivere le persone che amo, accettando la scure del destino, perché solo così può essere, consumandomi nella vicinanza, nell’accettazione di ogni orrore possibile vivendolo per quel che è veramente: un diaframma. Un velo nero da strappare. Dietro quel vero restiamo bambini, tutti. Sempre.
Perderò la luce di questo momento, non so se un poco alla volta o tutta in un solo istante. Ma ne porterò per sempre testimonianza, perché uno solo di questi momenti basta a illuminare una vita intera.

Considero questi episodi della mia esperienza in Zambia molto significativi, perché ho iniziato a riguardare tutto ciò che ho intorno in un’altra prospettiva. Giocare a basket, ascoltare le persone, ricevere un regalo, mangiare con gli amici, tornare a casa… tutto acquista un nuovo senso e un nuovo valore, perché questa povertà semplifica la ricerca di ciò che mi rende contento, la riduce all’essenziale.

Giovanni Riganti in Zambia

Ovviamente non sono la fatica e la povertà ad essere belle di per sé: la possibilità di arrivare lieto e fine giornata dipende soprattutto da come so stupirmi dei regali che ho, a cominciare dalle persone con cui vivo, e non da quante cose possiedo o da quante cose faccio. Nel rientrare in Italia sono molto sereno, non provo (magari solo per ora) il desiderio struggente di tornare in Zambia nella convinzione che in Africa tutto sia più intenso e bello: la sfida che raccolgo è quella di provare a vivere così ogni momento della mia vita, ovunque mi trovi. Intuisco che ciò non può dipendere solo da un mio sforzo di volontà o da un vago spirito missionario: si tratta di riconoscere e accettare che non possono essere le circostanze esterne a determinare la mia possibilità di essere felice.

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Pubblicato il 12 Dicembre 2022
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