
A Varese la violenza sessuale col coltello sotto al cuscino: condanna a 8 anni per il marito violento
Il collegio di Varese ha pronunciato la sentenza che prevede anche un risarcimento di 20 mila euro a favore delle parti civili

Otto anni richiesti dall’accusa. Otto anni ottenuti, per il pesante quadro emerso alla vigilia delle conclusioni di un processo che è stato un salto nel buio fra dipendenze, violenza, vita famigliare guasta e brutti ricordi di vittime raccontati in aula fra pianti e silenzi.

Così l’uomo di origini albanesi arrivato in Italia per lavorare come muratore ma finito dietro le sbarre dopo l’arresto avvenuto anni fa nella sua casa appena fuori il centro di Varese, oltre a difendersi da una condanna in primo grado pesante dovrà pure risarcire la parte civile con 20 mila euro: sua moglie.
Nel processo hanno «collaborato» anche i figli, ascoltati come testimoni in una delle ultime udienze, e che hanno assistito al deteriorarsi della famiglia fra bottiglie di birra svuotate a più riprese, spese destinate all’alcool e pretese da padre padrone che facevano leva sui muscoli, e sulla paura. Una violenza raccontata in aula che è diventata via via più intima, cioè pretesa sessuale con più che velate minacce come l’episodio racontato dinanzi a Collegio e agenti della Penitenziaria in prima battuta dalla vittima che aveva spiegato come il marito, sfatto dall’alcool, prometteva di andare oltre servendosi di una lama nascosta sotto al cuscino se non fosse stato assecondato con pretese sessuali consumate nella totale noncuranza della vicina presenza dei figli, a “dormire“ nella porta accanto.
Episodi sfociati nelle manette quando una sera di dicembre di 6 anni fa alla sua porta bussarono le Volanti, che lo portarono via. Sui corpi delle vittime – la moglie, ma in quel caso anche il figlio, che si era intromesso – i segni della violenza: botte, percosse, persino un morso al braccio del ragazzo che aveva osato cercare di difendere la madre.
La donna, difesa dall’avvocato Elisabetta Brusa, ha avuto il coraggio di denunciare e di raccontare in aula quanto accadutole che, sia pur nel rispetto della presunzione di innocenza, solo per venir pronunciato fra le lacrime e i singhiozzi, costituisce prova se non altro emotiva perché umana, e difficile da confutare.
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