Morire a Nikolajevka
di Abramo Vane
Camminare camminare camminare. Giorno e notte. Quaranta sotto zero. Sparare e essere sparati. Un tenente grida. Là dietro, la ferrovia! Coraggio, chi si ferma è perduto.
Non sento più il Destino sulle spalle, il suo peso. È lui adesso che porta me. Un San Cristoforo, e io sono un povero Cristo.
Oggi, 26 gennaio 1943, è un’alba chiara. Un’armata intera è davanti a noi. Due armate, forse tre. Non vedo il cielo, non vedo la neve. Solo questo schieramento nemico. Carri armati, katiusce, mitragliatrici. Aerei a bassa quota. Non passeremo. Il sole è di fronte, acceca. Ce l’ha con noi. Natura e Destino.
I comandi sono saltati. Siamo pecore allo sbando. Le pecore diventano uomini, gli uomini soldati, e i soldati diventano eroi. Per sopravvivere. Gli ufficiali fanno del loro meglio, combattono e danno l’esempio. In loro prevale lo spirito dell’alpino. Ognuno è un padre, un capofamiglia. E in tanti moriranno, per la famiglia.
Il tenente di prima non c’è più. Chi si ferma è perduto, grida un altro tenente. Ognuno per conto suo, selvaggiamente. Abbiamo perso l’unità. Non siamo un esercito, non siamo una patria. I canti degli alpini non risuonano nei cuori. Solo spari. Gli animi dei semplici sono bufere di fuoco. Cadono in tanti.
Morti, e altri morti. Lamenti di feriti, e per loro non ci sarà scampo. Bombe rimbalzano e uccidono. Pallottole che vagano. Cercano corpi. La morte ama tutti.
La disperazione dei singoli diventa di tutti. Ritroviamo unità. Non è quella dei reparti. Non dei fucili.
Né dei comandi. Spirito di sopravvivenza, unità nella disperazione. È la forza delle anime umane. Ce la faremo. Qualcuno ce la farà. Un dolore al capo. Capisco. Esito. Una pallottola è trattenuta nell’elmetto. Mi hanno colpito. Non ho paura. Sono un soldato vero. Un alpino che scala montagne e cerca fra le nuvole il significato delle cose. Non penso alla mia vita passata, non la vedo scorrere nell’ultimo istante. Tolgo l’elmetto. Penso di gridare dalla gioia di essere ancora vivo. Le gambe invece si piegano, non sono più mie. Mi affloscio. La neve mi accoglie, ed è dolce. È una mamma che prende in braccio il proprio bambino dopo una corsa, e il monello nasconde il volto nei seni confortevoli.
Adesso sì, nella caduta, rivedo la mia vita passata. E quella futura, che non vivrò. Il corpo si adagia, ha sonno. Giace nella neve, e la mia anima ci sta sopra, non vuole lasciarlo. È trattenuta dai ricordi. Mi vedo un sorriso sulle labbra, mentre trapasso. I ricordi straziano, si aggrappano al passato. Torno all’infanzia, alla mamma, ai fratelli. Nella vita volevo solo amare. Olga. L’ultimo pensiero, l’ultima visione. Non ho più lacrime da nascondere.
E poi tutti quei corpi in questa distesa. Se sopravvivo, ci torno, e camminerò sulla terra fatta di ossa, di speranze svanite. Ma la neve è così candida. È una voce irrinunciabile. E io riposerò in pace. Qui e ora. Sono caduto come un gatto selvatico, uno di quelli a cui sparavo in trincea per mangiare, e adesso sono io l’animale incosciente, che vive e poi muore.
Uomini agonizzanti, feriti, squarciati, congelati. Normalità. Ci si abitua a tutto. Tanti modi per morire in guerra. Uno vale l’altro. Pregavo di andarmene d’un colpo, senza sofferenza. Meglio morire che essere fatto prigioniero. È il mio Destino. Addio, Olga.
Ottant’anni da Nikolajevka (1943-2023) – Pagina tratta da “Il soldato inutile” di Abramo Vane – Edizioni IL CAVEDIO (www.ilcavedio.org)
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