Visitò in intramoenia o in clinica? Le fatture del dottore ai raggi “x“ del tribunale di Varese
Un processo che gravita attorno alla libera professione “intramuraria“ di uno specialista, dove non sono mancati colpi di scena a un passo dalle sentenza
Le ipotesi di reato sul tavolo della pubblica accusa per un medico varesino sono piuttosto serie poiché contemplano comportamenti che se dimostrati vanno dal peculato alla truffa ai danni dello stato, al falso ideologico per fatti che gravitano attorno al concetto di “intramoenia“ cioè la libera professione intramuraria che si riferisce alle prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, i quali utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa (il pagamento delle prestazioni avviene direttamente alla struttura).
Il medico è tenuto al rilascio di regolare fattura e le prestazioni sono generalmente le medesime che deve erogare sulla base del suo contratto di lavoro con il Servizio Sanitario Nazionale, attraverso la normale operatività come medico ospedaliero.
Ma la legge, per il regime di intramoenia, stabilisce “il divieto di svolgere l’attività libero professionale presso studi medici collegati in rete dove operano anche professionisti non dipendenti o non convenzionati del Ssn ovvero dipendenti non in regime di esclusività, salvo deroga dell’azienda del Ssn e a condizione che sia garantita la completa tracciabilità delle singole prestazioni“, come specificato dal ministero della Salute.
Una premessa necessaria per comprendere la genesi di un processo che vede alla sbarra il professionista varesino a cui sono contestate alcune fatture legate ad attività professionale che avrebbe invece erogato in una struttura privata e per giunta fuori regione, alcuni anni fa.
Il processo celebrato dinanzi al Collegio di Varese è arrivato alle battute finali e ad un passo dalla sentenza, però oggi non arrivata con una sorta di colpo di scena all’ultimo istante.
Il pubblico ministero aveva già formulato le sue richieste: assoluzione per uno dei capi d’imputazione – riferibile al peculato cioè per aver trattenuto la somma che il sistema sanitario nazionale eroga al professionista come “indennità di esclusiva” – , e condanna a tre anni di reclusione e multa per i residuali punti del capo d’imputazione riferibili cioè al reato di “truffa aggravata ai danni dello Stato“ e al “falso“.
Il difensore ha invece ribaltato il punto di vista specificando l’assenza di valide prove per sostenere che le prestazioni fossero state eseguite in una clinica privata pugliese, invocando dunque l’assoluzione del medico anche alla luce del fatto che nessuno dei clienti visitati dal professionista è stato sentito come teste nel corso del processo, e quindi non è stato possibile sapere dell’effettiva natura delle visite e quindi, da parte del Collegio, poterne apprezzare i contenuti come eventuale prova.
Il tribunale, dopo camera di consiglio (presidente il giudice Crema), ha preso la decisione di rimandare il verdetto non prima di aver sentito i pazienti che verranno chiamati a testimoniare sul caso.
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