Oltre “l’indignazione da parmesan”: sfida ai luoghi comuni del giornalismo enogastronomico
Il giornalismo agroalimentare merita giornalisti che "non si bevono qualunque cosa": una situazione molto più comune di quel che si pensi. Parola di Carlo Ottaviano e Adriano Mauri
Si parlava di giornalismo di inchiesta in campo enogastronomico, nel salotto rosso di villa Panza questa mattina. Ma in verità, il dibattito ha smascherato come la stampa italiana sia a un livello ben più basso di quello che genera una indagine seria sull’argomento: comunicati stampa improbabili pubblicati senza verifiche, ignoranza totale su quale sarebbe il compito di un giornalista in uno dei cosiddetti “educational” proposti dalle aziende (che il bravo giornalista, va da sè, non dovrebbe seguire pedissequamente per poter dare un’informazione non del tutto “pilotata”…), inesistenza quasi completa di una redazione che conosca a fondo l’argomento, pur essendo un argomento seguitissimo.
Ad ascoltare il Workshop GlocalCibo di domenica 22 con Carlo Ottaviano, giornalista per anni direttore della rivista Gambero Rosso e di Vie del Gusto, e Adriano Mauri, fotografo sardo “a 360 gradi” ma con grande esperienza specifica sul cibo, c’era di che rimanerne sconfortati.
Ma una via c’è: affrontare seriamente l’argomento. Che sembra a tutti “poco serio”, ma che invece fa parte del tessuto economico del paese e riguarda la nostra salute, quindi ha tutti i diritti di essere trattato con dignità e serietà. Come è successo, per esempio, con il monumentale reportage fotografico sull’enorme varietà di cibi sardi realizzato da Mauri, progetto commissionato da alcune istituzioni locali.
Per farlo correttamente, innanzitutto bisogna: «Smettere di prendere per oro colato ogni comunicato quello che arriva, e chiamare almeno gli uffici stampa per capire meglio e fare le pulci»: troppe sono le notizie che vengono prese da comunicati stampa e pubblicate, senza «avere nè il tempo nè il buongusto di verificare – spiega Ottaviano – ci sono associazioni che campano da anni su questa pigrizia, facendo pubblicare quotidianamente notizie inverificate e inverificabili».
O anche “Cominciando ad andare oltre i luoghi comuni, e alle belle favole fatte per emozionare la gente”: «Favole come i mitici pomodori di Pachino, nati in Israele negli anni 80, quindi nemmeno tanto tempo fa. Ora chef di ogni genere li utilizzano per valorizzare un “prodotto tradizionale italiano” che cresce bene in Sicilia, ma che di tradizionale non ha niente».
Del resto: «Perchè mai ci indignamo per tutti i cibi “italian sounding” come il Parmesan, quando in Italia vendono gli hamburger di Chianina e i wurstel di pollo? Cosa dovrebbero farci Usa e Germania per queste distorsioni?» E in fondo: «C’è l’indignazione sulla lotta del latte italiano: ma dove è scritto che il latte italiano è migliore di quello francese?».
Infine: «Smettiamola di pensare che l’agricoltura sia un mondo sano e di persone perbene. In agricoltura spesso succedono le cose peggiori: In Piemonte ci sono dei braccianti che fanno la vendemmia che dormono in macchina, perché non hanno soldi. In Sicilia una lavoratrice è stata messa incinta e costretta ad abortire quattro volte dal suo datore di lavoro bracciante. In Puglia le donne lavorano 16 ore in nero tutta l’estate».
Morale, nel giornalismo enogastronomico vale la stessa regola degli altri giornalismi: non fidarsi mai di nessuno, verificare sempre, non guardare quel mondo con occhiali rosa e in maniera miope. «Perchè è importante, anche nell’agro alimentare, imparare a “coltivare il dubbio”.
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