Dopo la Cina Trump vuole colpire l’Europa. A rischio il nostro export
La finanza raccontata dagli operatori piace al pubblico della Feltrinelli. Dai dazi americani alla nuova via della seta del leader cinese Xi Jinping, dai Brics ai Fang, ecco i nuovi mercati su cui investire
Non è un buon vento quello che spira sull’Europa, da una parte le tensioni alimentate dai sovranisti, dall’altra le prospettive economiche che risentono della guerra commerciale in atto tra Usa e Cina. Un quadro così incerto sul piano macroeconomico si riflette sulla fiducia degli investitori. Una situazione che desta preoccupazione soprattutto tra gli operatori finanziari, intervenuti numerosi all’incontro della Libreria Feltrinelli di Varese in occasione della presentazione di due libri che trattano questo argomento: “La ruota dei mercati finanziari“, scritto da Massimiliano Malandra e Andrea Forni, e “La crisi economica e il macigno del debito” di Maurizio Mazziero e Andrew Lawford, entrambi pubblicati da Hoepli. (foto sopra da sinistra: Malandra, Forni, Lawford e Mazziero)
TRUMP VUOLE COLPIRE I PAESI ESPORTATORI
I quattro analisti finanziari hanno tracciato una mappa piuttosto dettagliata dei rischi di sistema a cominciare da quanto sta avvenendo nei rapporti commerciali tra Usa e Cina. «Subito dopo i cinesi – ha detto Maurizio Mazziero – ci siamo noi. Trump vuole colpire i paesi esportatori verso gli Usa». Un’affermazione che dovrebbe far preoccupare il nostro governo, considerato che l’Italia cresce proprio grazie alle esportazioni e non al mercato interno. A questo scenario bisogna aggiungere l’incertezza dell’esito delle prossime elezioni europee e degli effetti della Brexit che potrebbe essere un passaggio indolore oppure un’uscita da pagare a caro prezzo. «Ci sono dei segnali poco incoraggianti – ha sottolineato Andrea Forni – per esempio le tariffe per l’affitto dei container in Inghilterra stanno aumentando rapidamente perché si prevede che i tempi di sdoganamento delle merci si allungheranno notevolmente».
NON PIÙ BRICS MA FANG
La domanda, in un quadro così incerto, è dunque dove investire. Fino a una decina di anni fa andavano di moda i BRICS, sigla che racchiudeva i mercati emergenti (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Oggi sono i FANG a dominare la scena dei mercati, acronimo che indica i titoli tecnologici più performanti, presenti nei desideri di qualsiasi investitore, ovvero: Facebook, Apple, Netflix e Google. Gli unicorni generati nella Silicon Valley americana dovranno però fare i conti con i soliti cinesi perché, come è stato ribadito al recente World economic forum, entro dieci anni l’economia cinese scavalcherà a piè pari quella made in Usa. «La vera sfida è stata lanciata da Xi Jinping – spiega l’esperto di tecnofinanza – perché la nuova via della seta aggrega 68 paesi che hanno il 40% della popolazione giovane mondiale e i due terzi delle riserve energetiche. La Cina sta creando nuove vie di comunicazione fisiche e digitali per sganciarsi dal dominio americano e occidentale».
Non sono tempi buoni per le obbligazioni, molto meglio il mercato azionario. Secondo Massimiliano Malandra, una strategia che in passato ha funzionato è stata la “Dogs of the dow“, cioè la selezione di dieci titoli azionari del listino, i cosiddetti segugi, con il più alto rendimento in termini di dividendi distribuiti all’azionista. «Tutto dipende sempre dalla percezione del rischio dell’investitore -dice Malandra – E la paura per lo storno di novembre sui Btp è stata così pesante che ha fatto aumentare il clima di incertezza».
L’ITALIA TRA DEBITO PUBBLICO E BANCHE UBRIACHE
Per finanziare il debito pubblico che ammonta a circa 2.300 miliardi di euro il Tesoro deve emettere continuamente sul mercato titoli di Stato, nella speranza che qualcuno li compri. Fino ad oggi è andata bene, grazie anche al fatto che uno dei principali acquirenti è stata la Bce (Banca centrale europea). «Questo salvagente non ci sarà più – spiega Mazziero – e noi saremo costretti a navigare in mare aperto dove le onde sono troppo alte. Quindi il Paese e chi lo governa deve stare attento a fare certe dichiarazioni e cercare lo scontro con la Ue perché le istituzioni che hanno in mano il nostro debito hanno strumenti coercitivi».
Sul fronte banche le cose non vanno meglio. Gli istituti di credito italiani hanno nei loro bilanci moltissimi titoli di Stato. «Un legame morboso» che si traduce in un rischio altissimo in caso di svalutazione del debito pubblico. «Per esempio, Intesa Sanpaolo – sottolinea Andrew Lawford – che ha 75 miliardi di titoli di Stato italiani, non varrebbe più nulla». Sul banco degli imputati ci sono sempre i politici e la loro poca chiarezza quando si sono manifestati i primi problemi. «Le crisi bancarie – conclude l’analista – ci sono state anche all’estero con la differenza che l’intervento dei governi stranieri è stato deciso e immediato senza ambiguità. In Italia invece abbiamo avuto i Tremonti bond, i Monti Bond, obbligazioni garantite dallo Stato, e poi il fondo Atlante, un paradosso, perché è come dire che un gruppo di ubriachi si sostengono a vicenda mentre camminano per strada».
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