Emily, 23 anni: primo impiego all’hub Covid, “ho imparato a curare con gli occhi“

Fra i protagonisti della lunga corsa per fermare il virus, anche una giovane laureatasi il 2 novembre scorso. Ecco la sua storia

Generica 2020

Il sonno profondo della fine turno, la luce del cellulare che si illumina e la suoneria che si attiva. Poi la voce dall’oltretomba che chiede: «Chi è?».

Emily Bulegato, 23 anni di Besnate ha da poco finito il turno di notte passato al Circolo, il suo posto di lavoro da qualche mese.

Da quando, il 2 novembre 2020 ha sostenuto l’esame finale della laurea in Scienze infermieristiche all’università dell’Insubria e dopo una decina di giorni è stata schierata assieme a diversi altri colleghi di corso nell’occhio del ciclone di una tempesta che si chiama Covid.

Emily lo sapeva, ed è partita come succedeva ai piloti degli aerei da caccia nella Prima guerra Mondiale: dopo l’addestramento motori accesi, e via in battaglia. La particolarità di questi giovani infermieri riguarda il fatto che non hanno conosciuto altro.

«Sì, ci sono le lezioni, la parte teorica, l’insegnamento delle discipline che preparano alla professione. Ma stare in reparto e affrontare la quotidianità e un’altra cosa».

Questo vale per tutti i lavori. Ma durante una pandemia è diverso. Emily ha preso servizio il 13 di novembre al sesto piano del monoblocco di Varese nell’hub covid, la struttura appositamente costituita per fronteggiare l’emergenza con un approccio multidisciplinare perché questo richiedeva e richiede la particolarità della malattia. Ora lavora al terzo piano dell’ospedale.

Stanca? «No, nella norma. Ora i turni sono diminuiti, la pressione lavorativa allentata, siamo tornati alle otto ore».

E come è andata in questi mesi? «È stata un’esperienza incredibile, che mi ha fatta crescere di colpo». Rimane, da profani, la curiosità di come si possa riuscire ad arrivare al cuore delle persone che stanno in un letto d’ospedale, con un’interazione così mediata dalle protezioni e dai dispositivi di sicurezza.

«Quando cominciamo a lavorare siamo bardati come per lo sbarco sulla luna, ma la nostra presenza viene ugualmente percepita dai pazienti».

La figura dell’infermiere che prende per mano, carezza il volto di un paziente è un ricordo purtroppo lontano, anche se la vicinanza fisica e la contiguità rimangono per forza. «Sì, i pazienti si accorgono della nostra presenza. È vero che un sorriso, in molte circostanze, aiuterebbe molto. Ma in questi mesi ho imparato a stare vicino con gli occhi. A volte basta uno sguardo per veder riaccendersi la speranza e la voglia di lottare».

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 12 Maggio 2021
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