Rudolf Nureyev come lo ricordo io

di Mauro della Porta Raffo

rudolf nureyev

di Mauro della Porta Raffo
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Non sono certo la persona più adatta a celebrare la indubbia e indubitabile grandezza di Rudolf Nureyev nell’arte della Danza nella quale, peraltro, anche da profano, quale ero e sono, lo vedevo rifulgere, unico e solo, al di là e al di fuori di ogni canone e di ogni costrizione, per “creare” continuamente nuove emozioni.

È proprio, credo, questa sua capacità di “creatore” che lo spingeva ad essere ogni volta uguale e diverso, comunque e sempre maestro e profeta inarrivabile.
Non lasciatevi ingannare da chi vi dice di essere modesto, umile!

Il Grande Uomo è perfettamente cosciente della propria forza, della propria unicità e, così, è splendido rivedere e riascoltare una sua vecchia intervista televisiva degli anni Settanta nella quale, con decisione, asseriva:

«La danza in questo secolo è sopravvissuta e ha avuto successo per esclusivo mio merito»

affermazione nella quale è, a mio parere, rintracciabile, comunque, la coscienza, anche del sostanziale e sottile anacronismo di quest’arte.
Nureyev ha avuto grandi doni dal cielo e, non ultimo, quello di sapere che, contrariamente ai suoi più antichi maestri e predecessori, la sua classe e la sua valentia resteranno per sempre patrimonio visibile di tutti non esclusivamente in ragione delle splendide coreografie lasciate ma altresì attraverso le infinite, felici registrazioni televisive, cinematografiche e fotografiche che delle sue rappresentazioni esistono.

Ciò di cui, invece, posso tranquillamente parlare, perché mi riguarda personalmente, è delle sensazioni che la semplice presenza di Rudolf sapeva irresistibilmente trasmettere.
Quando, nel settembre del 1991, fu a Varese per il suo primo concerto nella nuova veste di direttore d’orchestra (avvenimento di portata mondiale che la città non seppe, come assai spesso le accade, comprendere e che lasciò passare senza alcuna partecipazione, mentre giornali, riviste e televisioni di ogni dove ne parlavano, fosse anche solamente per interrogarsi al riguardo, con giusto rilievo), ebbi finalmente modo di conoscerlo personalmente e fu ospite della mia casa in una splendida, lunga, eppur breve, serata.

Da qualche anno mia figlia maggiore, Alessandra, che già lo adorava da lontano, aveva avuto l’incredibile opportunità di frequentarlo, di seguirlo nelle sue rappresentazioni a Vienna, come a Parigi, a Milano come a Roma, diventandone amica e venendo considerata da lui “come una figlia”.
Ed è proprio per iniziativa di Alessandra che Rudolf aveva deciso di presentarsi nella nostra città in quella sua nuova incarnazione.
Per inciso, l’idea di dedicarsi alla direzione di un’orchestra gli era stata suggerita da Leonard Bernstein, suo coinquilino a New York, il quale gli aveva fatto notare come appunto i direttori d’orchestra fossero da annoverarsi tra le persone più longeve.

Quel 14 settembre il mio coinvolgimento fu grande: Nureyev, con la sua sola presenza, anzi, direi, con il solo apparire, sapeva trasmettere fortissime ondate emozionali.
Il carisma evidente, solare.
Il portamento naturale, privo di ogni finzione.
Gli occhi, profondi, percorsi a tratti da un fuoco selvaggio.
La voce gentile e imperiosa.
La cultura incredibilmente vasta.
Tutto in lui, però, era come velato, immerso in una invadente stanchezza, e si poteva indovinare, purtroppo, che “qualcosa” lo stesse lentamente soffocando.

Gradì molto l’ambiente familiare, la cena, la compagnia e parlò, indifferentemente, in italiano, francese, bulgaro, inglese e, naturalmente, russo con gli altri ospiti la maggior parte dei quali suoi orchestrali.
La serata passò tanto velocemente che, quasi in un attimo, fu l’ora dell’addio determinato dall’intervento del suo inflessibile maggiordomo inglese, Blue, che, d’improvviso, gli disse, irremovibile, che era tempo di andare.
Ricordo, come fosse adesso, Rudolf indossare la mantella che la sua inconfessata malattia rendeva necessaria anche in una dolce sera di settembre e assicurare a mia moglie che ci saremmo rivisti «perché – disse sorridendo – Sissi possa insegnare al mio maggiordomo le ricette delle ottime cose che ho mangiato».

Mi ripromettevo altri incontri e la possibilità di una più profonda conoscenza, anzi, di una vera amicizia.
Purtroppo, salvo una fuggevole stretta di mano nei camerini del teatro Impero, al termine del concerto del 16 successivo, nessun altro momento ci ha più visti insieme e, fino alla sua dipartita, il 6 gennaio 1993, solo qualche telefonata e la voce di Alessandra quando ne era al seguito (prima del definitivo declino che volle giustamente vivere appartato ove si escluda un’unica, terribile apparizione all’Opera di Parigi laddove di lui restavano esclusivamente i magici occhi a sciabolare tra il pubblico dal palcoscenico) mi hanno informato del reale evolversi della malattia e delle infinite sofferenze.

Per quanto annunciata e attesa, la morte di Rudolf – che ha voluto essere seppellito nel Cimitero degli Ortodossi – mi ha colto impreparato come accade allorché ci lasci qualcuno che sogniamo eterno e sempre a noi vicino.

Addenda:
È nel 2004 che, nella veste di Presidente della Associazione Culturale UnicaMenteMusica – per la fattiva iniziativa di mia figlia Alexandra della Porta Rodiani che ne era stata amica e collaboratrice negli ultimi anni – ho prodotto il docufilm “Rudolf Nureyev alla Scala” chiedendo al mio caro e vecchio amico Dino Risi di curarne la realizzazione.
Il docufilm in questione è stato dipoi presentato in una serata d’onore a Milano alla Scala e a Londra al Covent Garden. (la foto in apertura è tratta dall’invito alla prima mondiale della pellicola).
In entrambe le circostanze, ospite Carla Fracci.

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Pubblicato il 26 Ottobre 2021
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